Martedì mattina ci siamo alzati presto e dopo una buona colazione al Caffè Veloce, oramai il nostro bar di fiducia proprio accanto della Stazione JR di Kyoto, a base di cappuccino e brioche, ci siamo incamminati alla volta del quartiere di Higashiyama (東山区, Higashiyama-ku, letteralmente “monti orientali”), al di là del fiume Kamo, che per gran parte della storia di Kyoto si trovò fuori dai confini della città e per questo ancora oggi è rimasto più rurale rispetto alle altre zone del paese.
Poco prima di attraversare il ponte sul fiume Kamo abbiamo assistito ad una di quelle scene che per le nostre strade mai potremo vedere: tre uomini, seduti dietro ad alcune transenne, che deviavano il traffico da un sottopassaggio, erano intenti a pigiare i tasti di un rudimentale “contatore” nel tentativo, credo, di conteggiare il numero di veicoli che passavano per quella zona. Ora non posso certo sapere cosa ognuno di loro facesse nello specifico, ma la cosa ci ha comunque lasciati senza parole, inebetiti, increduli. Tutto avrei pensato meno che di trovarmi di fronte una scena simile, fotocopia di mille anime visti, dove i protagonisti si offrivano volontari per aiutare anziani signori a raccogliere dati per le loro pazze statistiche, venendo pagati pochi spiccioli, utili nella migliore delle ipotesi per comprarsi un gelato al locale sotto casa.
Superato il ponte sul fiume, abbiamo puntato al Tempio Kiyomizu-dera (清水寺), o più correttamente il Tempio Otowasan Kiyomizudera (音羽山清水寺), vera e propria istituzione della città di Kyoto. Mentre quasi tutti i templi sono legati ad una determinata setta, questo tempio sembra essere di tutti. Da oltre mille anni i pellegrini pregano la statua a undici teste di Kannon e bevono l’acqua della sorgente sacra (kiyomizu significa infatti “acqua pura”). Ovviamente anche noi abbiamo seguito le orme degli altri devoti, e una volta affacciati sul portico della sala principale, siamo rimasti incantati dallo splendido panorama di Kyoto offerto ai nostri occhi. Benché avesse iniziato a piovere, abbiamo proseguito la visita fino alla pagoda dall’altra parte dello strapiombo, per meglio gustare di una veduta d’insieme del tempio, che consiglio a tutti di provare. Giunti lì, poi, è facile capire perché l’espressione “saltare da Kiyomizu” sia l’equivalente di “saltare il fosso”. Abbiamo infine concluso la visita acquistando un amuleto raffigurante un toro da appendere, sul quale abbiamo lasciato scritti le nostre preghiere e i nostri desideri, sicuri che il dio di tutti avrebbe esaudito anche le nostre invocazioni.
Ridiscesi a valle, abbiamo voltato verso nord percorrendo le due bellissime strade lastricate Sannenzaka (三年坂, salita di tre anni) e Ninenzaka (二年坂, salita di due anni), che non a torto sono considerate patrimonio culturale. Vista la pioggia di quel giorno, la nostra principale preoccupazione è stata quella di non scivolare, vista anche la credenza popolare che vuole che scivolare su quelle vie costi due o tre anni di sfortuna.
Dopo aver ammirato in lontananza la Pagoda Yasaka, da non confondersi con l’omonimo santuario scintoista più a nord, elegante pagoda a cinque ordini che è tutto quello che rimane di un antico tempio buddhista, ci siamo incamminati lungo il Nene no Michi (ねねの道, viale Nene), che deve il suo nome alla vedova di Toyotomi Hideyoshi. Larga strada con eleganti negozi e gallerie private, le sue lunghe scalinate di pietra poste ai lati ci hanno condotto all’ingresso del Tempio Kōdai-ji e alla statua di Ryozen Kannon.
Un po’ svogliati forse anche perché affamati abbiamo ammirato solo dall’esterno l’imponente scultura alta 24 metri di Ryozen Kannon (霊山観音), dedicata ai soldati giapponesi caduti durante la Seconda Guerra Mondiale, ed abbiamo invece puntato direttamente al vicino Tempio Kōdai-ji (高台寺), formalmente riconosciuto come Jubuzan Kōdai-ji (鷲峰山高台), costruito nel 1605 per la vedova di Hideyoshi.
Ci siamo poi diretti alla “uscita meridionale” del Santuario Yasaka (八坂神社, Yasaka-jinja) noto anche come Santuario Gion (梅宮神社, Gion-sha), indicata da rossi torii, che ci ha dato accesso alla zona orientale del quartiere di Gion. Situato ai margini della zona commerciale di Kyoto, il Santuario ospita la principale festa religiosa della città, il Festival di Gion (祇園祭, Gion Matsuri), in luglio. Visitato il tempio e visto che la giornata meteorologicamente parlando non era davvero splendida, abbiamo preferito non dirigerci verso il vicino Parco Maruyama (円山公園, Maruyama kōen), il più famoso e affollato luogo per contemplare la fioritura dei ciliegi, ma siamo usciti dall’imponente porta a due ordini color vermiglio del Santuario Yasaka, per immergerci nella Shijo-dori, puntando al cuore del quartiere di Gion.
Gion (祇園) è il quartiere di geishe più famoso di Kyoto e per il giapponese medio è il simbolo dei piaceri della vita: il vino, le donne e il karaoke. La storia di Gion comincia in epoca feudale, con i locali per soddisfare i bisogni di pellegrini e visitatori, in seguito trasformati in sale da tè. Alla fine del XVI secolo, il Kabuki si trasferì qui dalla riva del fiume Kamo dove era nato, approdando nei numerosi teatri a est del fiume e contribuendo alla fama di Gion come paradiso per i giovani di modo. Consci di questo ci siamo subito immersi nel tratto della Shiji-dori, compreso tra il Santuario Yasaka e il ponte Shijo, nota come la principale zona commerciale di Gion. Abbiamo poi proseguito fino all’angolo sudorientale di Shijo con Hanamikoji, per vedere la più celebre ochaya di Gion, Ichiriki, dai caratteristici muri rossi. Visto il costo proibitivo d’ingresso abbiamo puntato ad un’altra sala da tè, più accessibile anche per i turisti come noi, il Gion Corner, ma alla fine siamo finiti col fermarci davanti ad un distributore di bevande attirati dalle simpatiche insegne a provare strane bibite dai colori e sapori assurdi.
Riorganizzate le idee e ricaricati dall’insolito intruglio ci siamo diretti verso Pontochō-dori (先斗町通り), delizioso vicolo, soprattutto al tramonto, quando ricorda una stampa ukiyo-e. Un tempo soltanto una striscia di sabbia, la zona cominciò a essere valorizzata nel 1670, quando diventò, ed è ancora oggi, il quartiere dei divertimenti e degli omosessuali. Sebbene sia abusato di neon e cemento, nella via sono situate numerose ochaya, e passeggiando al suo interno si può sentire ancora l’odore della Kyoto antica, quasi non se ne fosse mai andato da lì. Pontochō ospita anche il piccolo Santuario Tanuki (狸 o タヌキ, tasso o cane procione). Nel 1978, a Pontochō scoppiò un incendio e nel punto in cui si arrestò fu trovato un tanuki di ceramica distrutto dal calore. Credendo che il tanuki si fosse sacrificato per salvarli, i residenti costruirono un piccolo santuario per custodire i suoi resti.
Dopo aver gustato di quella bellissima parentesi della Kyoto antica, ci siamo diretti verso Shinkyogoku-dori, pittoresca via coperta, dove sorgono numerosi negozi di souvenir e oggetti alla moda, sale di pachinko, cinema e quanto altro la vita moderna possa concepire. Qui abbiamo trascorso il tempo facendo qualche acquisto e sbirciando perfino all’interno di una delle chiassose sale di pachinko, complice una vecchia signora, che nel soffermarsi all’ingresso, aveva lascato le porte aperte, mostrandoci un mondo altrimenti precluso a noi gaijin. In mezzo a tutta quella frenesia di neon e musica, Kyoto ha saputo comunque donarci ancora qualcosa della sua storia: con nostro estremo stupore, infatti, tra un negozio di vestiti ed uno di valigie sorgeva un piccolo tempio buddhista, con tanto di un’imponente campana al suo ingresso.
Saccheggiati alcuni negozi di musica e fumetti, dando fondo a tutte le nostre finanze, vista l’ora abbiamo deciso di rientrare al ryokan dove, dopo un rilassante bagno all’interno dell’o-furo, abbiamo atteso l’ora di cena ammirando il bottino della giornata. Degna chiusura di quel memorabile giorno, infine, è stata l’ottima cena gustata ad un sushi bar proprio fuori dalla Stazione JR di Kyoto, dove abbiamo potuto mangiare dell’ottimo pesce e bere del buon tè verde, ridendo e scherzando, fino a quanto la stanchezza non ci ha costretti nuovamente sotto i caldi futon.
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