Il lunedì mattina ci siamo alzati presto. Il jet lag era totalmente assorbito e ci siamo subito diretti a fare colazione. Da bravi italiani nel mondo, dopo una rapida consultata al menù, abbiamo inevitabilmente finito con lo scegliere quel “set” che più assomigliava ad una colazione occidentale, mandando nel panico tutto lo staff del locale, impreparato ad una simile situazione. Quante risate a denti stretti, quanti sguardi dagli altri avventori del locale. Vi informo solo che dal giorno successivo è comparsa sui menù una lapidaria scritta rossa che suonava più o meno così: “Massimo 10 D Set al giorno”. Muahaahah!
Con la pancia piena e uno sfrenato desiderio di avventura siamo partiti alla volta del quartiere di Ueno (上野市, Ueno-shi), dal lato opposto della città di Tokyo. Abbiamo avuto così il nostro primo impatto con la Yamanote Line (山手線, Yamanote-sen), la ferrovia per così dire di “uso quotidiano”, quella che da noi può essere paragonata ad un treno locale. Diciamo subito che il servizio offerto vale il prezzo pagato (nel nostro caso compreso nel JR Pass), e questo fa ben capire perché siano in così tanti ad utilizzarlo. Treni nuovi, puliti, efficienti, silenziosi, fruibili autonomamente anche dai disabili, dotati di indicatori audio-visivi che spiegano quanto manca alla successiva fermata (in lingua giapponese ed inglese), ma tremendamente freddi. Sì, aria condizionata diffusa nelle carrozze che leva l’umidità e abbassa la temperatura intorno a 15 gradi. Irreale silenzio. Persone assopite, rapite nel loro mondo fatto di auricolari e telefoni cellulari, che finiscono con l’addormentarsi, svegliandosi solo al momento giusto, un secondo prima che si aprano le porte, lasciando l’occidentale sbigottito e incredulo.
Giunti alla stazione di Ueno, ci siamo immersi nell’esplorazione del più grande parco del Giappone, il Parco di Ueno Onshi (上野恩賜公園, Ueno Onshi Kōen), immenso polmone verde della città di Tokyo. Anche grazie ad una cartina gentilmente regalataci da un anziano signore che prestava servizio presso la struttura, ci siamo piacevolmente persi nei sentieri fra i vari giardini, scoprendo inaspettati tempietti ed altari votivi fra le fronde degli alberi. Abbiamo poi puntato alle principali attrazioni offerte dal parco: il Santuario Gojo, che si raggiunge attraverso una serie di rossi torii e che in una suggestiva grotta conserva diverse statue di volpi Inari. Il Santuario Tosho-gu (東照宮) costruito nel 1627, purtroppo in ristrutturazione, del quale abbiamo potuto ammirare solo la porta Shinto Grand Oishi Torii e le lanterne di bronzo del giardino, e la vicina Pagoda a cinque ordini, risalente al XVII secolo. Il Tokyo Metropolitan Art Museum (東京都美術館, Tōkyōto Bijutsukan), edificio dai mattoni rossi, che abbiamo snobbato poiché presentava come mostra temporanea parte delle opere egiziane del Museo di Torino. Poi il Kyomizu Kannon-do la cui sala risale al 1631 ed è dedicata a Senju Kannon dalle mille mani; vi si trova anche Kosodate Kannon, bosatsu del concepimento circondato da molte offerte di bambole. Infine il Tempio Benten-do, al centro del bellissimo Laghetto Shinobazu (不忍池, Shinobazu no Ike), in parte ricoperto da enormi piante di ninfee e in parte navigabile sulle “tipiche” barchette a forma di cigno.
Essendo “giustamente” andati a visitare questo parco di lunedì abbiamo potuto vedere solo poche attrazioni, visto che la maggior parte dei musei e delle sale espositive apre dal martedì alla domenica. L’occasione però ci è stata propizia per gustare in pace il parco, solitamente meta di molte persone durante la settimana e soprattutto durante le feste.
Lasciata la zona di Ueno ci siamo incamminati verso il vicino quartiere di Asakusa (浅草), puntando subito al Tempio Senso-ji (金龍山浅草寺, Kinryū-zan Sensō-ji), conosciuto anche come Asakusa Kannon, il più antico tempio buddhista di Tokyo, che si dice essere stato costruito nel 628. Attraversata la grande Porta Kaminarimon (雷門), o “porta del tuono”, i cui guardiani Fujin (a destra) e Raijin (a sinistra) hanno teste originali e corpi più recenti a causa dell’incendio che bruciò la porta nel 1865 e che venne ricostruita solo nel 1960, e dopo l’immancabile foto sotto la grande lanterna al suo centro, uno dei più famosi punti della città di Tokyo, ci siamo immersi nella Nakamise-dori (仲見世通り), una via coperta lunga 250 metri che porta dalla porta Kaminarimon alla porta Hozomon, i cui lati sono occupati da circa 90 negozietti che risalgono al periodo Edo. Qui si possono trovare tutti gli oggetti della tradizione, tra cui cinture obi, pettini, ventagli, bambole e kimono. Dopo aver dedicato un po’ di tempo agli acquisti, ci siamo diretti verso la Sala Principale. Purtroppo anche questa si trovava in ristrutturazione, pertanto fatta eccezione per una breve capatina all’interno ci siamo immediatamente recati a visitare le altre strutture del tempio. Primo fra tutti il braciere per l’incenso (joukoro), sempre attorniato di gente che si cosparge di fumo per tenersi in salute. Poi sulla sinistra abbiamo ammirato una Pagoda a cinque ordini, la Sala Awashima dedicata alla divinità protettrice delle donne, e la Sala Yougoudo con adiacente splendido giardino. Poi sulla destra l’Asakusa Jinja (浅草神社), santuario del 1649 dedicato agli uomini che ritrovarono la statua della dea Kannon, la Porta Nitenmon costruita nel 1618 e infine il Campanile Benten-yama, la cui campana risale al periodo Edo.
Nel rientrare verso il nostro hotel, non poteva certo mancare una foto al vicino Birrificio Asahi, il cui edificio pretende di essere un bicchiere di birra con un oggetto dorato sopra, che detto fra noi, assomiglia molto ad una “cacca”.
Dopo una bella doccia e con tanta fame addosso, ci siamo diretti verso il quartiere di Shibuya (渋谷区, Shibuya-ku), alla ricerca della tanto chiacchierata vita notturna di Tokyo. Appena fuori dalla stazione siamo stati immediatamente travolti dalla massa di persone che affollavano la piazza. Un’incredibile vociare di persone, ragazzi delle più svariate età, modi di vestire, di atteggiarsi, di chiacchierare, tutti ammassati nello stesso punto in attesa di un semaforo verde, pronti a invadere le vie della “sakabira”, la città dei divertimenti. Immersi in quell’euforica atmosfera, abbiamo giocato a fare i tokyonesi, dandoci appuntamento alla Statua di Hachiko (ハチ公), opera del 1936 che ritrae il cane che aspettò il suo padrone scomparso per più di 10 anni fuori dalla stazione, per poi mischiarci alla marea di persone che attraversavano il Shibuya Cross, sicuramente l’attraversamento pedonale più famoso del mondo. Ci siamo quindi persi per le vie di questo scintillante quartiere, fermandoci solo per mangiare un boccone da Wendy’s, finché le gambe non ci hanno più retto. Anche quella giornata stava per finire, ma nel salire sul treno per rientrare verso Shinjuku, nella nostra mente non vedevamo l’ora di tornare a visitare quel magnifico luogo.
Dopo una bella doccia e con tanta fame addosso, ci siamo diretti verso il quartiere di Shibuya (渋谷区, Shibuya-ku), alla ricerca della tanto chiacchierata vita notturna di Tokyo. Appena fuori dalla stazione siamo stati immediatamente travolti dalla massa di persone che affollavano la piazza. Un’incredibile vociare di persone, ragazzi delle più svariate età, modi di vestire, di atteggiarsi, di chiacchierare, tutti ammassati nello stesso punto in attesa di un semaforo verde, pronti a invadere le vie della “sakabira”, la città dei divertimenti. Immersi in quell’euforica atmosfera, abbiamo giocato a fare i tokyonesi, dandoci appuntamento alla Statua di Hachiko (ハチ公), opera del 1936 che ritrae il cane che aspettò il suo padrone scomparso per più di 10 anni fuori dalla stazione, per poi mischiarci alla marea di persone che attraversavano il Shibuya Cross, sicuramente l’attraversamento pedonale più famoso del mondo. Ci siamo quindi persi per le vie di questo scintillante quartiere, fermandoci solo per mangiare un boccone da Wendy’s, finché le gambe non ci hanno più retto. Anche quella giornata stava per finire, ma nel salire sul treno per rientrare verso Shinjuku, nella nostra mente non vedevamo l’ora di tornare a visitare quel magnifico luogo.
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