“Non lo avete notato anche voi? Sono quasi scomparsi gli alpinisti medi. Non so spiegare il fenomeno. Però è un fatto che in Italia negli ultimi anni c’è stata una forte divaricazione tra chi vede la salita come uno sforzo sportivo intenso, spesso estremo, e invece villeggianti di fondo valle ben contenti di fare la loro camminata di poche ore prima di sedersi a tavola per il pranzo.”
Inizia così l’articolo di Lorenzo Cremonesi apparso sul numero di aprile di Montagne360, la rivista mensile del Club Alpino Italiano, che mi ha fatto parecchio riflettere sulla domanda (che campeggia anche sulla copertina): “Siamo alpinisti o turisti?” Qualche volte sarà capitato anche a voi come a me di partire per una camminata e tornando a casa la sera, sentire un po’ di amaro in bocca, forse perché in realtà la meta non è stata altro che il rifugio… E questo articolo, con molta semplicità, porta l’attenzione su una questione che è davvero sotto gli occhio di tutti, ma che per pigrizia ritengo a volte facciamo finta di non vedere.
Vi lascio quindi al resto del pezzo, dopo il salto, sicuro che una volta concluso anche in voi la domanda si farà meno nebulosa e avrete modo di riflettere e farne spunto per qualche chiacchierata (almeno, si spera) al rifugio con gli amici.
“Non so bene come dire. È come se un’intera categoria di frequentatori delle nostre Alpi, che sino almeno ai primi anni Ottanta costituiva una buona parte, se non la maggioranza, del popolo articolato e colorato che includiamo nella definizione generica di “alpinista”, si fosse quasi estinta. Parlo, tanto per capirci, di coloro che sono capaci di percorrere in modo autosufficiente in ghiacciai più importanti per le “normali”, salire di primi le vie di terzo, magari con il passaggio di quarto. Insomma, gente che se la cava con le cartine per pianificare un percorso, ha i rudimenti del pronto soccorso, sa fare i nodi di base dell’assicurazione, conosce il “mezzo barcaiolo”, si destreggia con la “doppia”, maneggia la corda senza troppi problemi e non disdegna la notte nel bivacco a botte. Gente che può andare senza guida in cima al Mote Bianco o al Rosa con i figli adolescenti, oppure salire la normale al Campanil Basso, percorrere da legati la Cresta Segantini alla Grignetta pensando che quasi quasi potrebbe farla in libera senza troppi patemi. Persone che si allenano con lo zaino pensate in primavera con l’obiettivo di raggiungere il Cervino dalla normale italiana e scendere dalla Svizzera.
Ecco, questo tipo di alpinisti mi sembra sia molto diminuito. È un fatto che mi è saltato evidente agli occhi l’estate scorsa dopo aver fatto una serie di servizi per il settimanale «Sette» del «Corriere della Sera» sulle salite molto classiche e tutto sommato semplici da proporre a nostri lettori. Sui percorsi attorno al Monviso, sulla cima del Gran Paradiso, dell’Adamello, persino su alcune ferrate delle Dolomiti, ho incontrato tanti stranieri, specie francesi, tedeschi e qualche inglese. Meno italiani. Sui media e sulla rete ci si esaltava per il nuovo record di salita sul Cervino, ma i sentieri per le valli laterali erano semivuoti. Ho visto super atleti nostrani partire per le vie più difficili con tutine, bastoncini in carbonio e attrezzature all’avanguardia. Skyrunners con al polso orologi “fa-tutto, con tanto di cardiofrequenzimetro, altimetro, gps e contapassi in grado di fornire i dati aggiornati all’ultimo secondo delle loro prestazioni. Ho anche viso il loro opposto: plotoni di villeggianti che guardano al rifugio più come una meta, che non una base di partenza per le salite del giorno dopo. Parecchi scelgono quelli distanti al massimo due o tre ore dall’auto, ci arrivano per il pranzo di mezzogiorno e se ne tornano a casa prima di sera.
Devo dire che il fenomeno è più accentuato sulle Alpi Occidentali, che non in Dolomiti. Però questo aspetto del rifugio diventato obbiettivo ultimo della gita, che a sua volta è il pretesto legittimante la mangiata, mi è sembrato molto diffuso. Intendiamo, niente di nuovo. Ma la novità sta nel fatto, lo ribadisco, che questo va a spese della categoria degli alpinisti “di mezzo”.
Possibile che il Carè Alto la notte dello scorso febbraio non avesse una prenotazione?
Qualche decennio fa lo avremmo evitato per il troppo affollamento.
È un ben, un male?
Non so, ma questo è ciò che ho rilevato. Denuncia forse una carenza, un’incapacità della vecchia filosofia del Club alpino italiano, che intendeva le attività delle sezioni, le gite e soprattutto i proprio corsi con l’obbiettivo appunto di formare alpinisti medi autosufficienti d’inverno come d’estate. Non eroi dell’estremo, non atleti da prestazioni strabilianti, ma anche non villeggianti focalizzati sul menù del rifugista, il quale a sua volta inevitabilmente è sollecitato a inventarsi ricette sempre più raffinate per poter sopravvivere.”
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