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Corso di Cucina Tradizionale Giapponese (和食)

http://www.ecucina.eu/

Come ho letto il trafiletto di presentazione non ho resistito e ho subito chiamato quelli di è Cucina con la speranza ci fosse ancora posto: e così e stato! L’esperienza di due anni fa mi aveva lasciato una buona impressione e la voglia di mettermi nuovamente alla prova per imparare cose nuove era tanta, così un paio di venerdì fa ho frequentato il “Corso di Cucina Tradizionale Giapponese”.
Anche queste volta la presentazione lasciava prevedere una serata davvero intesa e ricca di soddisfazioni: «Un corso di cucina giapponese sotto la guida dello chef Tatsumoto per esplorare i piatti della tradizione, dalla Tempura alla minestra con tofu al Tori no Teriyaki (pollo in salsa teriyaki)», e devo confermare che ancora una volta le mie aspettative sono state ben ripagate.
Riassumo quindi di seguito i vari argomenti trattati durante l’esercitazione teorico-pratica durata circa 3 ore, dalle 19:30 fino alle 22:30 e un poco oltre.

Prima di partire, però, è bene sapere che, come riportato anche su Wikipedia, la “cucina tradizionale” viene chiamata in lingua giapponese nihon-ryōri (日本料理) o washoku (和食) per identificare la cucina precedente al periodo Meiji, in contrapposizione alla cucina yōshoku (洋食 “cucina occidentale”) diffusasi nel Paese nipponico in seguito all’abolizione del periodo di sakoku (Paese Chiuso) conseguente alla Restaurazione Meiji. Ma il washoku è molto più di quello che si possa pensare: è una pratica sociale basata su un insieme di competenze, conoscenze pratiche e tradizioni legate alla produzione, trasformazione, preparazione e consumo del cibo, e ad essa è associata il principio fondamentale del rispetto e dell’uso sostenibile delle risorse naturali. E proprio per questo, accanto anche al valore riconosciuto della dieta tradizionale nipponica nel contribuire alla longevità e alla prevenzione dell’obesità, nel dicembre 2013 il washoku è stato inserito fra i Patrimoni Orali e Immateriali dell’Umanità dell’UNESCO.

Dopo questa breve e doverosa parentesi culturale, torniamo in cucina.
Arrivati il Maestro Tatsumoto Katsuya era già lì pronto ad accoglierci. A distanza di due anni non era cambiato per nulla, e se non fosse stato per la sua parlata in un italiano più fluente di quel che ricordassi, direi proprio che per lui il tempo si era fermato alla sera del nostro primo incontro. Ed ecco subito la prima sorpresa: una scodella di Udon (饂飩, scritto anche come うどん) preparata dal maestro, graditissima e perfetta entrée, sia per introdurre gli argomenti della serata, sia per mettere qualcosa in pancia, che in fondo non guasta mai. Tipici della cucina giapponese, gli udon sono una varietà di noodles preparati con farina integrale di grano, cotti in abbondante acqua non salata, scolati e lasciati freddare, prima di servirli in una tazza con brodo caldo, accompagnati con del cipollotto verde tagliato a rondelle fine: una vera delizia!

Primo argomento in scaletta è stato il Dashi (出汁, だし), leggero e limpido brodo di pesce, indispensabile nella cucina giapponese, usato come base di minestre e come ingrediente liquido di molte preparazioni dato il suo gusto “puro e intenso”. Dopo una breve introduzione durante la quale abbiamo avuto modo si divagare parlando anche di rāmen (ラーメン, 拉麺) e della sua differenza con gli udon, assieme al maestro abbiamo iniziato a preparare il primo brodo, Ichiban Dashi (一番出汁, いちばんだし). Qui il procedimento è lo stesso che si può trovare in tantissimi libri e siti internet, ma vale la pena riproporlo.
In una casseruola senza coperchio abbiamo posto un pezzo di alga konbu (昆布), che il maestro ha avuto cura di pulire velocemente e incidere con le forbici per meglio diffondere le sostanze in essa contenute, assieme a 5 tazze di acqua fredda e acceso il fuoco. Poco prima che raggiungesse il bollore abbiamo abbassato al minimo, levato l’alga e unito al brodo 10 gr di katsuobushi (鰹節, かつおぶし), un ingrediente molto importante della cucina giapponese, che si ottiene grattugiando in piccoli fiocchi filetti di tonnetto striato essiccato, fermentato e affumicato. Ripreso il bollore abbiamo spento il fuoco e lasciato il tutto a riposo per 5 minuti. Abbiamo quindi scolato il brodo con un colino fitto a cui poi il mastro ha aggiunto un cucchiaino di salsa di soia, uno di mirin (味醂 o みりん), una sorta di sakè dolce giapponese da cucina, e un po’ di sale per dare maggior sapidità.

Siamo quindi passati al secondo brodo, Niban Dashi (二番出汁, にばんだし), un brodo che si usa invece per preparare la zuppa di miso, gli stufati, le salse o più semplicemente quando si vuole un bordo da mescolare ad altri ingredienti. In una nuova casseruola senza coperchio vanno unite 4 tazze di acqua fredda e un pezzo di alga konbu, anch’essa precedentemente pulita e incisa, più quella utilizzata per preparare l’ichiban dashi. Poco prima che raggiunga il bollore si abbassa il fuoco al minimo, si levano le alghe e si versano all’interno 10 gr di katsuobushi più quello conservato dallo scolo del primo brodo. Atteso che torni a bollire, si spegne subito il fuoco, e si lascia quindi riposare per 5 minuti. Infine, filtrando il tutto, si ottenere un brodo che può essere conservato in frigo anche per 2-3 giorni.
La versione del maestro differisce un po’ da quelle che si possono trovare sui ricettari o in rete, dove solitamente per preparare il niban dashi si utilizza solo l’alga konbu e il katsuobushi dell’ichiban dashi, ottenendo un bordo più leggere, o meglio “di recupero”. Sembra infatti che questa abitudine risalga a quando il katsuobushi era raro e costoso e non lo si voleva, perciò, sprecare. La variante del maestro, però, regala un dashi più saporito che all’assaggio non mi ha per nulla deluso. Ahimè non ho avuto modo di chiedere di questa sua personale preparazione, quindi rimarrà un dubbio da smarcare alla prima occasione.

Il punto successivo in scaletta era la Zuppa di Miso (in giapponese misoshiru 味噌汁), una zuppa tradizionale costituita sostanzialmente da brodo mescolato con pasta di miso (味噌 o みそ), un impasto di soia fermentata dagli svariati usi in cucina. Abbiamo versato 4 tazze di niban dashi in una casseruola e portato a ebollizione. Spento il fuoco abbiamo sciolto la pasta di miso poco alla volta (circa 40 gr), passandola attraverso un colino, e assaggiando la zuppa man mano che univamo il miso, per valutare il sapore e non rende il tutto troppo intenso. Il maestro ha poi tagliato a cubetti (rigorosamente sulla mano) e unito alla zuppa di miso il tōfu (豆腐, とうふ), una sorta di formaggio ottenuto dalla cagliatura del succo ricavato dalla soia.
Siamo passati quindi all’impiattamento: nella nostra ciotola abbiamo posto dell’alga wakame (若布), precedentemente ammollata, e degli anelli di cipollotto tagliato fino e lasciato anch’esso in ammollo per levargli il gusto forte di erba. Abbiamo quindi versato la zuppa di miso, avendo cura di lasciar cadere anche qualche cubetto di tōfu. Era infatti giunto il momento della meritata pausa: tanto lavoro andava ammirato e gustato caldo, ma con la dovuta calma.

Ricaricati ci siamo tuffati nella preparazione della Tempura (天麩羅 o てんぷら tenpura), un piatto della cucina giapponese, tra i più conosciuti al mondo, a base di verdure e pesce, rivestiti da una leggera pastella e fritti in olio di semi. Pare che questa ricetta tragga origine da un piatto diffuso dai missionari cristiani quando, nel XVI secolo, giunsero in Giappone assieme ai portoghesi.
La tempura si può preparare pressoché con qualsiasi verdura, meglio se di stagione. L’importante è che sia lavata, asciugata, tagliata delle dimensioni comode per essere mangiata, ma soprattutto che sia fredda. Ottimi sono anche i filetti di pesce, dai quali però si deve aver cura di eliminare le lische. Importante è anche la preparazione delle mazzancolle, che vanno separate dalla testa e spellate, lasciando però la coda integra. Su suggerimento del maestro abbiamo inoltre spuntato la coda di qualche millimetro, questo per permette all’acqua di uscire dalle mazzancolle durante la frittura senza provocare schizzi o far scoppiare il crostaceo. Abbiamo quindi inciso il dorso per estrarre delicatamente l’intestino e praticato alcune incisioni sulla pancia, usando infine le dita per allungare e impedire che si arricciassero le mazzancolle durante la cottura.
Per la pastella vanno posti in un recipiente 200 ml di acqua gassata ghiacciata, il rosso di un uovo e aggiunti 200 ml di farina setacciata. Il segreto sta nel mescolare poco la pastella, in modo che all’interno restino parecchi pezzi di farina ancora asciutta. Appena l’olio è delle temperatura giusta vanno immersi i vari ingredienti nella pastella, che prima però bisogna aver cura di passare dentro a della farina asciutta, e quindi adagiati nell’olio per farli friggere fintanto ché non raggiungono quel bel colore dorato tipico della tempura. Qui sorvolerò sulla tecnica e segreti di pastella, olio e cottura: infondo se volete cimentarvi dovete seguire anche voi un corso e non certo cavarvela solo leggendo le mie parole o guardando qualche video in rete! Scolati e asciugati dall’olio in eccesso, abbiamo poi impiattato i vari ingrediente posizionandoli a formare una piramide, avendo cura di porre in bella vista le code di gambero, poiché si sa, anche l’occhio vuole la sua parte.
Per la salsa di accompagnamento delle tempura sono necessarie 4 tazze di dashi, 1 tazza di salsa di soia e 1 tazza di mirin che vanno riscaldate in una casseruola. Appena bolle, abbassare il fuoco e aggiungere 5 gr di katsuobushi. Una volta che la salsa è tornata a bollire va tolta dal fuoco e scolata. La temperatura ideale per servirla è quella corporea (37° C circa). A parte vanno grattugiati zenzero e daikon (大根, letteralmente “grossa radice”), una varietà del ravanello comune originaria dell’Asia orientale, in modo che ogni commensale possa unirli alla salsa a proprio piacimento.

Il tempo era letteralmente volato ed era infine giunto anche l’ultimo punto in scaletta, il Tori No Teriyaki (鶏の照り焼き, pollo in salsa teriyaki: てりやき). Per preparare il condimento si versano 4 cucchiai di salda di soia, 4 cucchiai di mirin, 2 cucchiai di zucchero e 1 cucchiaio di sakè in una pentola e portati ad ebollizione, mescolando costantemente, fino a quanto lo zucchero si scioglie completamente e la salsa è ridotta rispetto all’inizio della cottura. Curiosamente, teriyaki deriva dal nome 照り (teri), che fa riferimento al luccichio indotto dallo zucchero contenuto nella salsa, e da 焼き (yaki), che allude al procedimento di grigliare o arrostire.
Disossate le sovraccosce di pollo e, a discrezione dei gusti, tolto o lasciato la pelle avendo cura però in questo secondo caso di inciderla per facilitare la cottura, abbiamo versato un po’ d’olio in una pentola antiaderente e fatto rosolare il pollo. Dopo una decina di minuti, aiutandoci con della carta da cucina, abbiamo eliminato olio e grasso in eccesso e poi versato la salsa teriyaki, lasciando insaporire il tutto a fuoco basso per altri cinque, dieci minuti. La cottura è sempre a piacimento, ma l’importante è che la salsa non bruci. Una volta tolto dal fuoco abbiamo tagliato il pollo a bocconcini e quindi servito: ancora una volta una delizia per il palato!In conclusioni una bella esperienza, che consiglio davvero a tutti, perché diversamente dall’opinione comune la cucina giapponese non è solo “pesce crudo” ma riserva una ricchezza di ingredienti, piatti e preparazione che per varietà e quantità non hanno nulla da invidiare alla cucina italiana.

Nel salutare vi assicuro che i miei piatti, che forse non erano belli come quelli del maestro, era davvero ottimi!

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