Passa ai contenuti principali

Expo Milano 2015

Expo Milano 2015

Benché la giornata non fosse delle migliori, meteorologicamente parlando, oramai la data era stata confermata e quindi alle 6:30 ci siamo messi in marcia alla volta dell’Esposizione Universale di Milano. Consci che la soluzione migliore sarebbe stata quella di andarci in treno, abbiamo comunque osato e, visto che la fortuna arride sempre gli audaci, con una bella dose di c… abbiamo casualmente trovato parcheggio nella zona industriale ad una quindicina di minuti a piedi dall’Accesso Ovest Triulza.

Alle ore 9:00 in punto si sono aperti i cancelli e velocemente assieme alla fiumana di gente attorno a noi siamo potuti entrare nell’area fieristica. Metal detector e tornelli si sono rivelati meno problematici del previsto e, devo proprio dirlo, l’organizzazione mi è parsa davvero ottima permettendo un rapido accesso senza particolari intoppi alle centinaia di persone incolonnate alla porta.

Una volta entrati ci siamo subito scontrati con la realtà dei fatti: in meno di mezz’ora l’acceso al Padiglione Zero era già stato chiuso con impossibilità ad accodarsi per problemi di carattere logistico nonché di sicurezza. Effettivamente il padiglione è molto vicino all’ingresso e permettere una coda di accesso eccessivamente lunga avrebbe di sicuro creato più disagi che benefici, quindi, con un po’ di amaro in bocca abbiamo deciso di lasciar perdere, cosci che non saremmo più tornati indietro a visitarlo.

Abbiamo quindi iniziato la nostra visita all’Expo.

Korea
Come riportato anche sul sito ufficiale, il tema del padiglione è l’Hansik, Cibo per il Futuro. Ognuno di noi ha i suoi piatti preferiti e svariati tipi di cibo sono stati creati sotto l’influenza soprattutto della cultura, dell’ambiente e dei gusti personali. Al fine di indagare meglio questo tema, la visita si svolte all’insegna di tre domande che un simpatico coreano enuncia all’inizio del percorso: “Cosa dobbiamo mangiare? Come dobbiamo mangiare? E fino a quando possiamo mangiare in modo sostenibile?”. I tre quesiti sono stati scelti poiché il cibo che mangiamo quotidianamente è parte del nostro corpo, fa parte della nostra vita e costituisce la cultura della comunità alla quale apparteniamo. Secondo gli intenti dei progettatori, poi, i visitatori del Padiglione Coreano avrebbero l’occasione di riflettere sulle loro preferenze a tavola e sulle loro abitudini alimentari e, attraverso la cultura dell’Hansik, avrebbero modo di conoscere quali siano gli alimenti salutari per il loro corpo e per il futuro dell’umanità. Forse non è proprio tutto così chiaro, forse era il primo padiglione dove sono entrato, ma sono uscito con qualche perplessità. Il lavoro comunque è buono, la visita è seguita e si è supportati durante tutto il percorso dal personale interno che illustra le varie stanze, tuttavia manca qualcosa, quel qualcosa in più per rendere la vista più frizzante, interessante, entusiasmante.

Vietnam
Qui il tema è “Acqua e fior di loto”. Come riportato sul sito di Expo, l’acqua è l’elemento più importante al mondo per il nutrimento e la vita di tutti gli esseri viventi, ma in realtà soffre a causa di inquinamento, sprechi e sovra sfruttamento. Il loto è un fiore molto diffuso in Vietnam, cresce dal fango esprimendo una disarmante bellezza e ha la capacità di purificare l’acqua in cui prospera. Questa doppia immagine è stata scelta per veicolare il messaggio del Vietnam alla comunità internazionale riguardo al suo impegno di proteggere attivamente l’ambiente e le risorse idriche. Riso, caffè, pepe, frutta secca e frutti di mare sono i prodotti più esportati e dovrebbero essere esibiti a Expo in modo tale da dare il massimo risalto all’essenza della cucina vietnamita, tuttavia di queste cose ho visto assai poco, per non dire nulla. La disposizione degli spazi all’interno del padiglione, la modalità di accesso e il numero delle persone ammesse volta per volta dentro non permettono certamente di ottenere il meglio dalla visita. Per un fortuito caso proprio mentre eravamo all’interno era prevista una bellissima esibizione di musica tradizionale vietnamita seguita da una danza in abiti tradizionali. A dirla tutta però, se non ci fosse stato questa attrazione, il mio personale giudizio sarebbe stato a di poco negativo.

Repubblica Popolare Democratica del Laos e Bangladesh
Su questi due padiglioni spenderò poche parole in quanto, a mio avviso, avulsi dalla realtà dell’Expo. Troppo piccoli (entrambi praticamente una stanza), lasciati all’autogestione della folla che li attraversava e incapaci di trasmettermi il tema che i due stati avevano ideato e portato a Milano.

Azerbaijan
Tra i più sorprendenti per forma e innovazione, il Padiglione dell’Azerbaijan è stato progettato con l’idea di condurre i visitatori all’interno di tre sfere di vetro distribuite su più livelli per rappresentare diverse biosfere: la prima è dei paesaggi, la seconda è quella delle nove zone climatiche azerbaigiane, la terza è quella delle culture tradizionali e dell’innovazione. Il tutto ha lo scopo educativo di proporre il Paese come grande produttore ed esportatore di prodotti alimentari biologici sani e genuini, per promuovere le sue grandi tradizioni storiche e culturali in ambito alimentare e favorire l’introduzione di una nuova visione politica incentrata su sviluppo sostenibile, biodiversità e salute delle generazioni future. Ho trovato molto interessante la struttura a lamelle di legno, posta al centro del padiglione, che rappresenta la sagoma di un albero rovesciato, nonché tutti i percorsi interattivi che con un approccio ludico accompagnano lo spettatore lungo il percorso. Tutto sommato un padiglione interessante che merita certamente di essere visitato, anche se sarebbe stato forse ancora più fruibile se la visita lungo le varie stanze fosse stata guidata da personale di supporto.

Giappone
In tutta onestà posso confermare che questo padiglione vale davvero tutte le ore di coda che si devono inevitabilmente fare per potervi accedere. Qui infatti il Giappone esprime al tempo stesso il profondo amore per le sue tradizioni culturali e la grande fiducia nel progresso e nell’innovazione. Il tema scelto è “Diversità armoniosa”, che racchiude la visione giapponese di uno sviluppo in equilibrio con le risorse. Tutto è studiato, curato e realizzato nei minimi dettagli, quasi maniacalmente come solo un giapponese sa fare. E già dall’esterno lo si percepisce. Progettata dall’architetto Atsushi Kitagawara, la struttura è composta da 17mila pezzi di legno, sagomati a misura e incastrati l’uno nell’altro con grande precisione, e ha la funzione diurna di mantenere una confortevole abitabilità sia all’interno che all’esterno, nonché notturna di creare un effetto scenico tipicamente giapponese con la luce interna che si trasmette morbidamente come da una lanterna di carta. Il logo poi è una rappresentazione di bastoncini che comunica lo spirito di espressioni quali itadakimasu (formula di gratitudine prima d’iniziare il pasto), gochisosama (formula di ringraziamento dopo il pasto), mottainai (formula d’invito a non sprecare qui rappresentata a forma di bastoncini che possono raccogliere qualsiasi cosa, piccola o grande). Il modo in cui sono disposti esprime osusowake (senso di condivisione) ma comunica anche il significato di unione di tutti nel mondo all’insegna del piacere dato dal cibo. La forma del logo ricorda l’iwaibashi, un bastoncino giapponese usato a tavola in occasioni di festa, ed è stata disegnata apposta per richiamare la “E” di Expo. Una volta entrati il visitatore può ammirare i paesaggi intatti del Giappone rurale, così come le creazioni del suo design e della sua celebre cultura del fumetto e dell’animazione. Può scoprire la varietà degli utensili da cucina, il modo in cui vengono prodotti e utilizzati. E soprattutto può apprendere le tante sfumature della cultura gastronomica giapponese, dal modo di abbinare i sapori a quello in cui viene espressa la riconoscenza per il cibo che si consuma, nei confronti della natura che l’ha creato e delle persone che l’hanno prodotto. Un ristorante rende infine possibile provare in prima persona i tanti piatti della cucina giapponese, ma a un prezzo che definire caro sembra assai riduttivo. A parte questo, c’è davvero di cui sbizzarrirsi, ma il bello deve ancora venire. Sì perché il vero successo di questo padiglione è tutto nella sua interattività. Infatti, non si percorre quasi neppure un tratto del percorso senza essere circondati da giochi multimediali o video tridimensionali: il visitatore diventa protagonista del proprio viaggio, personalizzando l’esperienza e la permanenza nel padiglione grazie all’app ufficiale per smartphone, ascoltando musica, scaricando schede informative, scegliendo le pietanze virtuali e perfino imparando ad usare le bacchette in una tavola tutta digitale. Tutto questo e molto altro ancora (basta navigare il sito ufficiale a questo link) è il Padiglione Giappone, sicuramente uno dei più belli e interessanti all’interno dell’Esposizione milanese.

Marocco
Articolato attorno all’asse delle scoperte sensoriali, di cui fanno parte gli alimenti e una gastronomia ricca e rinomata, il tema scelto dal Marocco è semplice e diretto. Esso invita a scoprire attraverso i sensi la diversità e la ricchezza del Regno. Appena varcata la soglia del padiglione, una kasbah costruita in legno e in terra, il visitatore passa da una regione all’altra, scoprendo le diversità agronomiche del suolo inerenti a ogni regione. Questo percorso è in realtà una passeggiata fluida e continua che va dalle province del Nord del Mediterraneo alle pianure del Centro ricche di risorse idriche, passando per la costa oceanica ricca, urbana e industriale e per le montagne dell’Atlas al cuore dell’identità rurale per finire alle province del Grande Sud. Si percepisce davvero un’esperienza unica che fa richiamo a tutte le sfere sensoriali: il piacere delle fragranze, il contatto con belle materie, atmosfere di luci e di colore, ombre rinfrescanti, paesaggi sonori e la sottilità di gusti. È in questa diversità che è trasportato l’immaginario del visitatore, e lo accompagna fino allo Concept Store dove ho gustato del buonissimo te alla menta, che detto fra noi ci voleva proprio visto la giornata di pioggia che non accennava a calare. Anche qui manca la guida di personale di supporto e la visita è lasciata, per così dire, in autogestione, ma il tutto si rivela comunque davvero interessate.

Usa
Benché il tema per il Padiglione USA sia “American Food 2.0: United to Feed the Planet” (Cibo Americano 2.0: Uniti per Nutrire il Pianeta), devo confessare che all’interno non ho trovato nulla di tutto ciò. Dalla struttura non ho assolutamente percepito le lodevoli proposte di innovazione non solo nel settore alimentare, ma anche culturale, scientifico e commerciale così ben dettagliante sul sito internet e del materiale pubblicitario. Non ho trovato nemmeno così entusiasmante l’edificio in sé, progettato dall’architetto James Biber della Biber Architects di New York, se non per il simpatico gioco d’acqua posto al suo ingresso. Speravo davvero in qualcosa in più, ma ahimè sono rimasto solo con l’amaro in bocca.

Kuwait
L’acqua, l’agricoltura e l’energia sono le più grandi sfide che il Kuwait affronta per garantire una migliore qualità della vita in un’ottica di sostenibilità. La struttura, che richiama le imbarcazioni kuwaitiane, i Dhow, tuttora utilizzate nel Golfo Persico, offre quindi l’occasione al visitatore di conoscere sia i grandi progetti realizzati in questi tre settori sia i risultati raggiunti grazie ai contributi umanitari e alla cooperazione internazionale su trasporti, agricoltura, acqua, irrigazione, telecomunicazione, educazione, salute. Eppure la sensazione finale che ho percepito è quella di uno show volto ad esaltare la “grandezza” del Kuwait finendo col perdere di vista il tema sottostante e le sfide che questo popolo è riuscito a superare brillantemente negli anni, quali le serre e i sistemi di coltura idroponica, tanto per citarne alcune. Peccato.

Albero della Vita
Ovviamente la visita all’Expo non può che concludersi ai piedi dell’Albero della Vita. Realizzato da 19 imprese locali de Consorzio Orgoglio Brescia in 5 mesi con una spesa di 3 milioni, le radici di quest’opera affondano fin nel Rinascimento. È il 1534 quando su commissione papale Michelangelo inizia a riprogettare Piazza del Campidoglio a Roma. Per la pavimentazione gettata al posto dello sterrato concepisce un disegno a losanghe culminante in una stella a dodici punte, che simboleggiano le costellazioni. Ed è proprio a questa forma complessa e dall’elevato significato allegorico che Marco Balich si ispira per la struttura dell’Albero della Vita. L’intreccio che ricopre l’opera, realizzata su concept dello Studio Gioforma, riprende quel disegno e diventa slancio verso il futuro e verso l’innovazione, mantenendo salde le radici in quel Rinascimento che ha contribuito a diffondere una nuova visione dell’uomo. Scultura, installazione, edificio e monumento, con i sui 37 metri simboleggia appieno l’adiacente Padiglione Italia, e la guardandolo dal basso, con tutta l’imponenza della struttura, l’Albero lascia davvero a bocca aperta il visitatore. Le luci che lo circondano e la base che poggia direttamente sull’acqua completano davvero l’opera rendendola davvero unica nel suo genere. Ahimè non sono riuscito però a vedere lo spettacolo che viene ripetuto a intervalli regolari durante la giornata, in quanto sono arrivato ai piedi della struttura quando mancava circa un’ora all’inizio della rappresentazione. Vista l’ora, i piedi zuppi e la stanchezza di una lunga giornata a camminare su e giù per Cardo e Decumano, alla fine mi sono diretto alla macchina per poi rientrare a casa.

Se devo fare un bilancio della giornata, a differenza di quanto mi avevano detto alcuni amici, ho trovato la visita interessante, sia dal punto di vista didattico, sia di quello più goliardico. Alcune strutture, come avrete capito, non mi sono per nulla piaciute, altre invece mi hanno talmente incuriosito tanto da tornare a casa con il bisogno di dare una risposta ai quesiti che mi erano rimasti dentro. E se questo era l’obiettivo dell’Esposizione allora sono contento di averla visitata. Tutto sommato, una bella esperienza.

Commenti

Post popolari in questo blog

Via del Porce al Trapezio di Tessari

Finito da poco il corso di Alpinismo del CAI di Verona , abbiamo cercato subito di mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti e quindi, fra le tante proposte che ci hanno consigliato, nel pomeriggio siamo partiti alla volta del Monte Cimo, in particolare verso la parete di Tessari, meglio nota come il Trapezio . Caratterizzata da roccia solita ed eccezionalmente ricca di appigli, questa bella falesia ci è sembrata subito il terreno adatto per metterci alla prova, la scelta perfetta per iniziare a muovere i primi passi da capocordata. Parcheggiato a Tessari, salita la strada sterrata sulla sinistra e superati i campi coltivati, qui è iniziata subito la nostra disavventura, se così la possiamo definire, poiché abbiamo saltato l’ometto che indicava sulla destra il sentiero di accesso alla parte, salendo invece fino alla via d’uscita della nostra via. Archiviata questa parentesi di trekking sotto il cocente sole ci siamo avvicinati alla base della parte cercando la via “Cappucc

Via Cappuccio del Fungo al Trapezio di Tessari

Poiché la volta scorsa mi era rimasta ancora troppa voglia di salire il bel calcare di Tessari, sono riuscito a mettere insieme qualche amico e partire ancora una volta in direzione di Rivoli Veronese, verso quella parte di Monte Cimo nota come il Trapezio . L’avvicinamento questa volta non è stato un problema e nemmeno trovare l’attacco, due vie dopo quella del Porce, con un chiodo e poco sopra un cordino in clessidra: la via “Cappuccio del Fungo” (E. Cipriani & F. De Renso) era proprio lì ad aspettarci. Questo itinerario salito per la prima volta nel 1982, è stato il primo ad essere aperto sulla parete ed è uno dei più raccomandabili per la roccia, di eccezionale qualità e ricchezza di appigli, e per la conseguente bella arrampicata che offre. Filata la corda e sistemato tutto il materiale, compresi cordini e rinvii per le numero clessidre, siamo partiti in due cordate per la nostra ascesa. Anche questa volta, rispetto a quanto indicato nella relazione, in soli quattro

“Haiku” di Leonardo Vittorio Arena

L’Haiku è un genere poetico giapponese composto di diciassette sillabe che possono essere distribuite in tre gruppi, rispettivamente di cinque, sette e cinque sillabe. Questo genere è passato anche nelle letterature occidentali del secolo XX, dove, per la sua estrema sintesi metrica e concettuale, ha lasciato traccia nell’ermetismo… [Tratto da “Enciclopedia europea Garzanti”] Guizza la trota, sul fondale scorrono le nuvole. Titolo: Haiku Autore: Leonardo Vittorio Arena Casa Editrice: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli Anno: maggio 1995 ISBN: 978-88-17-125-307 Pagine: 108 Prezzo: 5,00 € circa Come riportato da Wikipedia.it , l’ haiku (俳句) è un componimento poetico nato in Giappone, composto da tre versi per complessive diciassette sillabe. Inizialmente indicato con il termine hokku (発句, “prima poesia”), deve il suo nome attuale allo scrittore Giapponese Masaoka Shiki , il quale definì haiku le poesie di tre versi alla fine del XIX secolo. Il genere haiku