È da un po’ che mi sono iscritto alla newsletter di Internazionale “In Asia”, a cura di Junko Terao, che racconta cosa succede in Asia e nel Pacifico e deve dire che la sto trovando davvero utile, interessante e ricca di spinti di riflessione sia personale che con gli amici.
Fra gli articoli proposti in una di queste mail settimanali, mi sono imbattuto nuovamente nel reportage uscito su il 13 aprile 2018 nel numero 1251 di Internazionale con traduzione a cura di Fabrizio Saulini. L’originale era uscito sulla rivista statunitense The New York Times Magazine con il titolo A generation in Japan faces a lonely death. L’articolo, raccontando la quotidianità della signora Ito, ci permette di riflettere su una tematica che, a mio avviso, interessa non solo il Giappone ma anche l’Italia.
La società di oggi è in continua evoluzione ed è molto diversa da quella dei nostri nonni. Il progresso tecnologico ha modificato radicalmente il nostro stile di vita e mai come in questo momento storico viviamo in un mondo in cui le informazioni viaggiano così velocemente e i cambiamenti avvengono in maniera così repentina che il rischio di rimanere indietro si eleva in modo esponenziale per tutti coloro che non riescono a stare al passo coi tempi. Ci vantiamo di vivere in una società che sempre di più si sta dotando di strumenti di comunicazione e inclusione, ma in cui invece, in realtà, i casi di esclusione sono più di quelli che pensiamo.
L’abbandono è la “malattia” più grave dell’anziano, e anche l’ingiustizia più grande che può subire: siamo una delle popolazioni più longeve, secondi solo ai giapponesi, eppure ci ostiniamo a esaltare il nostro modello di società che, incalzata da fascino del successo e dal superamento dei valori passati più intimi e tradizionali, è sempre più orientata a produrre ricchezza e sempre meno disponibile a sostenere coloro che, dopo aver dato, non possono più produrre e hanno poco da consumare.
Non mi dilungo oltre: materiale per discutere ce n'è. Dopo il salto vi riporto il testo dell’articolo e lascio ai vostri commenti il compito di trarre le conclusioni. Mi permetto solo di ricordare a tutti una ovvietà: gli anziani di domani siamo noi, anche se la cosa ora ci sembra così lontana…
Chieko Ito, 91 anni, aspetta l’autobus per andare al cimitero, 12 ottobre 2017, Tokiwadaira, Giappone. (Ko Sasaki, The New York Times/Contrasto)
Le cicale, ogni bambino giapponese lo sa, restano sottoterra per anni. Poi, durante l’estate, escono in superficie: si arrampicano sugli alberi, si spogliano dell’involucro e cominciano la loro breve seconda vita. Nei pochi giorni che trascorrono in mezzo a noi si accoppiano, volano e cantano finché i loro corpi non cadono a terra contorcendosi sul dorso, con le zampe protese verso l’alto, prima di morire.
Per la signora Chieko Ito è un frastuono insopportabile. Come all’inizio di ogni estate, le cicale hanno appena cominciato a frinire. Con il passare delle settimane il loro canto invaderà il suo appartamento al terzo piano e il silenzio diventerà un lontano ricordo. Quando le prime smettono, ecco che altre ripartono a strillare. Poi, al momento del picco massimo, una pioggia di cicale morte e moribonde si abbatterà sul gigantesco condominio, dando tregua solo alla fine della stagione.
“Fanno rumore dalla mattina alla sera”, sospira la signora Ito. È il pomeriggio del suo novantunesimo compleanno ed è una giornata insolitamente torrida, l’ennesima di un’ondata di caldo che sta facendo preoccupare i rappresentanti di quartiere. Alcuni volontari si aggirano per il labirinto di sentieri interni distribuendo volantini sui pericoli dei colpi di calore a persone come la signora Ito, che vivono sole in 171 edifici bianchi praticamente uguali. Non avendo parenti o visite, molti anziani passano settimane o mesi nei loro piccoli appartamenti, senza dare segni della loro esistenza al mondo esterno. Ogni anno qualcuno muore nell’indifferenza generale, magari scoperto da un vicino che ha sentito l’odore del corpo.
Il primo caso, o almeno il primo ad avere una risonanza nazionale, è stato quello di un signore di 69 anni che abitava vicino alla signora Ito e cui il cadavere rimase sul pavimento di casa per tre anni, senza che nessuno notasse l’assenza dell’uomo. L’affitto e le bollette mensili gli venivano addebitate sul conto in banca. Nel 2000, quando i suoi risparmi si erano ormai azzerati, le autorità entrarono nel suo appartamento e trovarono il corpo completamente spolpato dai vermi e dagli scarafaggi.
La parabola di un paese
Tokiwadaira, il gigantesco complesso residenziale dove la signora Ito vive da quasi sessant’anni, uno dei più grandi del Giappone, è una specie di monumento al boom demografico del dopoguerra e allo stile di vita “all’americana”. Ultimamente, però, è diventato famoso per qualcosa di molto meno edificante: le cosiddette morti solitarie, nella società che invecchia più rapidamente al mondo. “Quattromila morti solitarie alla settimana”, scriveva la scorsa estate una nota rivista cogliendo il senso di questa emergenza nazionale.
Per molti inquilini, quelle morti sono la conclusione naturale e spaventosa della parabola del Giappone degli ultimi sessant’anni. La ricerca ostinata della crescita economica e la successiva stagnazione hanno disgregato famiglie e comunità, intrappolando la società in un incubo demografico caratterizzato dall’aumento dell’età media e dal calo delle nascite. L’isolamento estremo degli anziani giapponesi è tale che si è sviluppata una piccola industria specializzata nel ripulire gli appartamenti dove vengono ritrovati i resti dei cadaveri in decomposizione.
“Come moriamo è lo specchio di come viviamo”, dice Takumi Nakazawa, 83 anni, da trentadue presidente del comitato dei residenti di Tokiwadaira. L’estate è la stagione più pericolosa per le morti solitarie, e la signora Ito non vuole correre rischi. Compleanno o no, sa che nessuno la chiamerà, nessuno le lascerà un messaggio e nessuno busserà alla sua porta per vedere come sta. È nata nell’ultimo anno del regno dell’imperatore Taishō (1926) e non si aspettava di vivere così a lungo. Uno dopo l’altro, amici e familiari se ne sono andati o si sono ammalati. Le schiere uniformi dei fabbricati che avevano attirato lei e suo marito nel 1960, quando l’intero Giappone sembrava giovane, ospitano i fantasmi dei vivi e dei morti.
“Ora ho tutte le stanze per me e posso fare come mi pare”, dice la signora Ito. “Ma non è un bene”.
È completamente sola da un quarto di secolo, da quando sua figlia e suo marito sono morti di cancro a tre mesi di distanza l’una dall’altro. La signora Ito ha ancora una figliastra, ma con il passare degli anni le due si sono allontanate; si scambiano solo gli auguri a capodanno o per qualche festività. Perciò Ito ha chiesto un favore a una vicina: una volta al giorno dovrebbe buttare un occhio al di là della siepe che divide i loro appartamenti e controllare la sua finestra. Tutte le sere, alle sei, prima di andare a dormire, la signora Ito chiude il pannello di carta della finestra. Poi la mattina, quando suona la sveglia alle 5.40, lo riapre. “Se è chiuso vuol dire che sono morta”, ha spiegato la signora Ito alla vicina.
La vicina ha accettato e la signora Ito si è sentita rassicurata. Per ringraziarla della gentilezza ogni estate le regala delle pere.
Se la vicina si accorge che il pannello è chiuso durante il giorno, deve avvisare immediatamente le autorità. Tutto è stato pensato e organizzato in anticipo. Il giorno del suo novantesimo compleanno Ito ha preparato una “nota conclusiva” per sbrigare le ultime formalità. Queste note, ormai molto diffuse, servono per essere sicuri di avere una morte pulita e ordinata.
Molte cose nel suo appartamento le ricordano i defunti. I libri tascabili, stipati a centinaia sugli scaffali, che in punto di morte il marito le aveva detto di buttare via una volta letti. La cassettiera finemente intagliata che la figlia si era portata via dopo il matrimonio e che le era stata restituita dopo la sua morte. In un armadietto ci sono i libri che la signora Ito ha scritto di suo pugno: un’opera in due volumi sulla sua vita nel complesso residenziale e un’autobiografia di 224 pagine, entrambe terminate in un improvviso slancio.
La signora Ito, meticolosa come sempre, ha addirittura lasciato i soldi per far pulire la casa quando arriverà il momento. L’ultima cosa da fare sarà rimuovere la vernice rossa dal suo nome, già inciso sulla tomba di famiglia, segno che finalmente si sarà riunita con il marito e la figlia. “Intorno a me sono morti tutti, uno dopo l’altro; sono rimasta solo io”, dice. “Ma quando penso alla morte ho paura”.
Nessuno sa come si chiamavano
L’afa comincia a farsi sentire. A metà estate nel complesso sono stati scoperti due cadaveri, probabilmente vittime del caldo. Il primo è stato trovato nella sezione della signora Ito. Una donna aveva sentito un odore sospetto proveniente dall’appartamento al piano di sotto: all’inizio aveva pensato che qualcuno si fosse fatto consegnare a casa un carico di kusaya, il pesce essiccato, poi il fetore si era fatto sempre più pungente, specialmente sul balcone dove andava a stendere il bucato. Nessuno dei vicini conosceva il defunto, anche se viveva lì da anni. Aveva 67 anni.
Il secondo cadavere è stato trovato due giorni dopo. Ancora una volta, l’odore era diventato talmente forte che il vicino non riusciva più a dormire. L’uomo deceduto era anziano, viveva lì da anni e chiacchierava con i vicini della fioritura dei ciliegi, ma nessuno sapeva come si chiamasse. L’interno del suo appartamento, visibile attraverso un finestrino d’aerazione, era cosparso di immondizia. Intorno al condotto ronzavano sciami di mosche.
L’amministrazione del condominio ha provato a contenere l’odore tappando con il nastro adesivo ogni fessura: gli interstizi delle porte d’ingresso dei due appartamenti, le buche delle lettere, perfino le serrature. È stato tutto inutile. Il fetore è trapelato comunque, invadendo corridoi, scale e appartamenti.
La signora Ito si tiene occupata per non pensarci. Fa lunghe passeggiate fuori del complesso, una gigantesca struttura a forma di ventilatore che si estende per quasi due chilometri in un quartiere residenziale alla periferia di Tokyo. Conta i passi sul cellulare, la mattina passa un’ora a scrivere sutra per la figlia e il marito e aiuta a tenere pulite le aree verdi lì intorno insieme a un gruppo di volontari. Ogni mese partecipa ai pranzi organizzati dai residenti per limitare l’isolamento e ridurre il rischio di morti solitarie. Durante gli incontri si siede sempre di fronte a Yoshikazu Kinoshita, un signore dalle gambe tremanti e dal grande appetito. I due non potrebbero essere più diversi: lei pianifica meticolosamente ogni giornata; lui si alza dal letto solo quando gli va. Ma le loro conversazioni, che per qualcuno potrebbero sembrare chiacchiere di circostanza, hanno acquisito un significato profondo.
“È così che vado avanti”, dice la signora Ito riferendosi alle sue attività.
Parla veloce, con frasi lunghe, e ha una schiettezza insolita per una della sua generazione. Anche nei momenti più imbarazzanti non si rifugia mai nella vaghezza della lingua giapponese. Nelle rare occasioni in cui le mancano le parole fornisce prove copiose delle sue esperienze, classificate per anno e argomento. Gli album sono pieni di scatti in bianco e nero di giovani famiglie come la sua. E poi, rilegati in giallo e impreziositi da un’elegante grafia, ci sono i suoi libri, tra cui i due volumi sulla sua vita a Tokiwadaira.
Chieko Ito mostra gli album di foto della sua famiglia, 12 ottobre 2017, Tokiwadaira, Giappone. (Ko Sasaki, The New York Times/Contrasto)
Negli anni sessanta il governo giapponese finanziò la costruzione di enormi complessi residenziali alla periferia di Tokyo e di altre città. Queste strutture, interminabili schiere di edifici chiamate danchi e destinate ai giovani impiegati a cui era stato affidato il compito di ricostruire l’economia del paese, introdussero il concetto occidentale di famiglia nucleare, in contrasto con la tradizione della casa pensata per ospitare più generazioni. I nuovi appartamenti, considerati un elemento centrale della rinascita del Giappone, erano assegnati in base a requisiti molto rigidi: il salario mensile di un inquilino di Tokiwadaira, per esempio, doveva essere almeno 5,5 volte più alto del canone d’affitto.
Eizo, il marito della signora Ito, lavorava in un’importante agenzia pubblicitaria, ma la concorrenza per entrare nei danchi era tale che dopo tredici tentativi la coppia ci rinunciò. Poi un parente, in segreto, fece domanda a loro nome per un appartamento in una struttura ancora in costruzione su un ex terreno agricolo a un’ora da Tokyo.
Prima ancora che i sacerdoti shintoisti purificassero il terreno e gli operai posassero la prima pietra, Tokiwadaira era già sulla bocca di tutti. I giapponesi non avevano mai visto nulla di simile: 4.800 appartamenti, distribuiti su uno spazio talmente vasto che per collegarlo servivano due stazioni ferroviarie.
Gli Ito arrivarono a metà dicembre del 1960, il giorno dell’inaugurazione. Era una giornata limpida, incoraggiante, con il monte Fuji visibile in lontananza dal balcone al terzo piano. Nella sua autobiografia la signora Ito scrive che la figliastra di 4 anni era “così contenta che si era messa a correre per tutto l’appartamento, scatenando le proteste del vicino del secondo piano”.
La loro nuova casa era un “3K”: tre piccoli locali, cucina, servizio e balcone. La signora Ito era colpita, non solo dall’efficienza dell’appartamento o dalla solidità del cemento (che sembrava in grado di resistere a qualsiasi terremoto) o dal sole che illuminava tutte le stanze. Affacciandosi per la prima volta in cucina, vide l’oggetto che, forse più di ogni altro, faceva sognare a tutte le casalinghe una vita nel danchi: il lavello, non più di piastrelle ma di scintillante acciaio inossidabile.
La cucina era al centro dell’appartamento, e non in un angolo buio sul retro come nelle vecchie case giapponesi. La centralità della cucina era il simbolo del nuovo ruolo delle casalinghe. Come altri residenti privilegiati del danchi, gli Ito avevano gli elettrodomestici più moderni: il frigorifero, la lavastoviglie e la tv in bianco e nero.
“Eravamo felici”, ricorda la signora Ito. Due anni dopo, con la nascita della bambina, la signora Ito si era ormai sistemata. Il marito prendeva il treno per Tokyo sei giorni alla settimana insieme a un esercito di pendolari. Lei insegnava in un asilo all’interno del complesso, dov’era responsabile del gruppo dei Tulipani. La popolazione infantile del danchi era in crescita, come quella di tutto il Giappone.
Nel giro di pochi anni erano nati talmente tanti bambini che si parlava di un secondo baby boom.
Ogni capodanno la famiglia si metteva in kimono per le foto. Gli Ito partecipavano alla giornata dello sport, una ricorrenza in cui bambini e genitori si sfidano in gare di corsa e altre discipline. Durante l’estate la signora Ito portava le figlie in una delle piscine per bambini del danchi. Nelle foto la piscina è sempre piena di bambini e di giovani mamme con costumi interi.
La signora Ito di solito stava alla finestra, quella con il pannello di carta, e guardava dall’alto il parco giochi e le sabbiere. I bambini dei palazzi vicini giocavano tutti insieme, e durante l’estate le loro voci si sentivano ancora più forti. Oggi non ci gioca più nessuno. I bambini sono spariti quasi tutti. Al posto delle loro grida di giubilo ci sono le fastidiose sirene delle ambulanze. Quasi la metà dei residenti di Tokiwadaira ha più di 65 anni.
Durante una passeggiata, la signora Ito indica la piscina immortalata nelle sue foto decine d’anni fa.
È vuota: un grande cerchio con rami secchi e sporcizia sul fondo azzurro pallido.
La sua seconda vita
Quando vado per la prima volta a casa della signora Ito, non faccio caso che quel pomeriggio nessuno la chiama o viene a trovarla. Solo a distanza di settimane mi rivelerà – emozionata, come se si aspettasse che glielo chiedessi – che quel giorno era il suo compleanno.
Mi regala il suo libro, I 53 anni di Chieko nel danchi Tokiwadaira. È un’enciclopedia di 394 pagine zeppe di date, nomi, eventi e foto. Nessun altro ha letto il testo, e non sa neanche lei perché si è presa la briga di scriverne una bozza a mano per poi ricopiarlo sul suo computer portatile e stamparlo. “Scrivere è una tale seccatura… è strano questo bisogno di scrivere”, dice.
Ito è nata in una famiglia di narratori. Il suo bisnonno paterno era un celebre cantastorie che girava per tutto il paese raccontando episodi della storia feudale del Giappone. Era conosciuto con il nome d’arte di Hogyusha Torin, e le sue opere sono conservate alla biblioteca nazionale. Sua nonna, anche lei una narratrice di professione, viveva con lei quando era bambina. Si metteva alla scrivania per correggere i testi e per legare il ventaglio pieghevole che usava durante le sue esibizioni.
“Forse ce l’ho nel sangue”, dice.
Nel libro la signora Ito divide la sua vita nel danchi in due parti. La prima comincia con il matrimonio e si chiude trentadue anni dopo, con la morte del marito e della figlia. È come se la sua vita fosse finita con la loro, specialmente con quella della figlia, di cui spesso parla al presente. A volte scherza o si lascia sfuggire un moto di rabbia quando tocchiamo l’argomento. Il più delle volte guarda nel vuoto.
La seconda parte, intitolata La mia seconda vita, si concentra sugli amici, i viaggi e le cose che succedono nel danchi. Si ritrovano vecchi amici e se ne fanno di nuovi, anche se Ito li vede pian piano scomparire.
Con il passare delle settimane, mentre il canto incessante delle cicale diventa lo sfondo di ogni nostra conversazione, Ito confessa che ha cominciato a scrivere per combattere la solitudine e per non dimenticare. “Anche i fatti spiacevoli”, dice. “Altrimenti tutto è perduto per sempre”.
La danza dell’Obon nel complesso residenziale di Tokiwadaira, 26 agosto 2017. (Ko Sasaki, The New York Times/Contrasto)
La sua seconda vita è cominciata nel 1992. Tokiwadaira e gli altri danchi del Giappone avevano già perso molto del loro smalto. Le famiglie preferivano le case autonome o i condomini. A Tokiwadaira andavano a vivere unicamente le persone sole e coppie di anziani senza figli. Una delle amiche più strette della signora Ito si trasferì a Tokiwadaira dopo essere rimasta vedova. Le due si incontrarono al reparto surgelati del supermercato, talmente felici di essere in compagnia da non fare caso al freddo. “Da allora siamo diventate inseparabili. Io sono fatta così”, racconta Ito.
Sono passati tanti anni. L’amica di Ito è morta, come tutti gli altri amici dentro e fuori del danchi. Sua sorella soffre di demenza senile. Un fratello è bloccato a letto. Il fratello più giovane ha cominciato ad avere problemi a camminare. “Sono sola da venticinque anni”, dice. “È colpa loro se sono morti. Sono arrabbiata”.
Durante il pranzo mensile degli inquilini, Ito, che ama mangiare leggero, ha preso l’abitudine di lasciare metà del suo pranzo al signor Kinoshita, il suo vicino di tavolo. Dopo aver saputo che gli piaceva leggere, gli ha prestato dei libri. Anche lui ne ha prestato qualcuno a lei, aggiungendo ogni tanto una tavoletta di cioccolata. Un giorno il signor Kinoshita le ha chiesto di passare a casa sua per riprendersi un libro.
“È stato allora che ho scoperto che il suo appartamento era pieno di spazzatura”.
Il signor Kinoshita vive al piano terra in un appartamento di due stanze più una cucina abitabile. Sparse sul pavimento ci sono cataste di vecchi abiti, scatole, libri, giornali, recipienti vuoti e pile di rifiuti. C’è un unico passaggio libero che porta dal letto al bagno, e percorrendolo si incrocia l’unico capo pulito dell’appartamento: una maglietta bianca appesa a uno scaffale e ancora avvolta nella plastica della lavanderia.
Il signor Kinoshita ha 83 anni. Le sue gambe si sono indebolite. Cammina con un deambulatore ed esce dal suo appartamento al massimo una volta alla settimana.
Dopo aver visto la sua casa, la signora Ito ha avvertito i rappresentanti del quartiere. Gli uomini che vivono da soli nel danchi, fiaccati dall’età e dalla malattia come il signor Kinoshita, sono i più vulnerabili. I referenti l’hanno rassicurata dicendo che i volontari lo stavano già tenendo d’occhio.
Un giorno, dato che il signor Kinoshita non si faceva vedere da una settimana, una volontaria è andata a bussare alla sua porta. Non ha risposto nessuno, ma da fuori si sentiva il rumore della tv. Credendolo morto, la volontaria ha chiamato la polizia. Quando il signor Kinoshita finalmente si è svegliato dal suo sonno profondo era un po’ imbarazzato, ma anche sollevato e forse perfino contento che la sua esistenza avesse attraversato la mente di qualcuno.
“Thanks for your kindness”, grazie per la sua gentilezza, ripete sempre Kinoshita in inglese, forse per evitare di manifestare stati d’animo troppo difficili da esprimere in giapponese.
Un momento di gloria
Se ne andò da Tokyo alla fine degli anni sessanta e si trasferì a Tokiwadaira quattordici anni fa, proprio quando le morti solitarie cominciarono a diventare un fenomeno diffuso. Nell’anno del suo trasloco, a Tokiwadaira ce n’erano state quindici. Oggi i volontari sono riusciti a ridurle a circa una decina all’anno. Il signor Kinoshita aveva perso tutto prima di trasferirsi nel danchi. La sua azienda era fallita e non aveva più neanche i soldi presi in prestito dai fratelli, che gli rinfacciarono di aver rovinato la famiglia. Quando gli portarono via anche la casa la sua seconda moglie lo lasciò.
È facile vedere Kinoshita come l’ennesima vittima dello scoppio della bolla economica giapponese. La sua azienda, I Love Industry, che lavorava come fornitrice nei cantieri sotterranei, cavalcò il boom edilizio dagli anni sessanta fino agli anni novanta, quando gli appalti pubblici si prosciugarono.
Ma il signor Kinoshita ha avuto anche il suo momento di gloria, a cui si aggrappa con la stessa disperazione con cui la signora Ito si aggrappa a Tokiwadaira nei suoi libri. Durante la costruzione del tunnel sotto la Manica, la sua impresa fornì una bobina per una pompa a una grande azienda appaltatrice, la Kawasaki Heavy Industries, per facilitare i lavori di scavo sotto lo stretto di Dover. Gli occhi gli si illuminano quando tira fuori il suo vecchio biglietto da visita, i bozzetti delle attrezzature e le foto dei bei tempi: si vede lui a una festa nella sede della Kawasaki, nel cantiere sotto lo stretto di Dover e a Parigi durante il suo unico viaggio in Europa.
Dopo la breve esperienza in Europa prese l’abitudine di condire i suoi discorsi con un po’ di francese, che si sommava all’inglese sgrammaticato imparato da un amico dell’università.
“In giro per Parigi sentivo tutti che dicevano ‘Merci madame’”, racconta. “Non vedevo l’ora di tornare a Tokyo e dirlo anch’io”.
Kinoshita tira fuori una grande foto in bianco e nero di quando aveva vent’anni e lavorava in una riseria. Con addosso solo un perizoma che ne mette in risalto il fisico muscoloso e le lunghe gambe, porta sulle spalle tre sacchi di riso, 180 chili in tutto. “When I was young”, quando ero giovane, dice in inglese.
È nato a Taiwan, allora parte dell’impero coloniale giapponese. Dopo la seconda guerra mondiale la sua famiglia è tornata nel sudovest del Giappone. Da bambino mangiava le rane catturate nelle risaie. Nonostante la povertà e la sconfitta del Giappone, vedeva barlumi di un futuro radioso nell’esuberanza giovanile del paese.
“La mia generazione aveva dei sogni”, racconta il signor Kinoshita, che intanto era diventato ingegnere meccanico. Non avrebbe mai immaginato che il suo declino – e quello del Giappone – sarebbe stato così rapido. Un colosso industriale come la Sharp assorbito da un’azienda di Taiwan, un’ex colonia giapponese, osserva sbalordito.
Nel 2011, quando il Giappone fu colpito da un fortissimo terremoto e dallo tsunami, Kinoshita si alzò in piedi per reggere un armadio. Da allora le sue gambe riescono a malapena a sostenere il corpo avvizzito.
Il mondo che conosceva si è ristretto. Fino all’anno scorso frequentava un centro benessere. Stare nella vasca gli faceva bene alle gambe ed era contento quando delle donne entravano nella vasca. Poi un giorno è svenuto nella Jacuzzi e la direzione ha chiamato l’ambulanza. Si è ripreso, ma si è rifiutato di salire sull’ambulanza e non è più tornato al centro. Adesso esce solo una volta al mese per andare al supermercato o ai pranzi mensili dove divide il tavolo con la signora Ito.
La sua amicizia con “Madame Ito” gli ha dato un po’ di energia, anche se è quasi sempre lei a parlare. “È molto assertiva, tanto che non riesco a dire una parola”, dice.
È contento che lei gli lasci la metà del suo pranzo e gli presti dei libri, anche se lui ha gusti un po’ più osé. “Tendo a preferire i libri erotici”, dice.
In una rara escursione fuori Tokiwadaira, il signor Kinoshita ha preso il treno per Tokyo e ha comprato delle tavolette di cioccolato per la signora Ito e per la volontaria che è venuta a bussare alla sua porta. Il signor Kinoshita l’ha soprannominata “Madame Eleven”.
La protezione dei defunti
Il 24 luglio, ricorrenza della morte della figlia, la signora Ito esce di casa la mattina presto per andare al cimitero, facendo lo stesso tragitto da venticinque anni. Alta e slanciata per una donna della sua generazione, cammina con la schiena dritta, mantenendo la postura di una persona molto più giovane. In jeans e scarpe da ginnastica, cammina su un marciapiede stretto, quasi sfiorando le macchine bloccate nel traffico mattutino.
Mancano poche settimane all’Obon, la festa dei morti. La signora Ito si ferma al banco di un contadino che coltiva pere e ordina della frutta di stagione da mandare ai suoi fratelli e ad altre persone, tra cui la vicina che controlla la sua finestra.
Fino a 85 anni Ito andava a far visita alla tomba del marito e della figlia due volte al mese, poi ha cominciato ad andarci solo una volta al mese.
Si porta il pranzo e mangia davanti alla tomba. Parla alla figlia, raccontandole quello che è successo dalla sua ultima visita. Il cimitero è sempre tranquillo e silenzioso, tranne d’estate, quando arrivano le cicale.
“Non le racconto niente che possa farla preoccupare”, dice la signora Ito. Prende un secchio e lo riempie d’acqua. Con un panno bianco lava delicatamente la lapide nera. Sistema i fiori che ha comprato. Accende dei bastoncini d’incenso, chiude gli occhi, giunge le mani e china la testa.
Parlare con la figlia e con il marito l’ha mantenuta in salute, dice la signora Ito. “Di solito a questa età uno non ci vede o non ci sente più, oppure ha perso i denti. Credo che mi abbiano protetta”.
Questa convinzione che gli spiriti dei defunti partecipino alla vita dei vivi è radicata nel buddismo, che disciplina tutto sul tema della morte in Giappone. Il legame con i defunti si mantiene prendendosi cura della tomba di famiglia. Ma in una società che sta invecchiando e dove ci sono sempre meno bambini, le difficoltà legate a questo compito sono diventate un argomento quotidiano di conversazione. “Cosa faremo con le nostre tombe?”, chiede lo stesso settimanale che ha lanciato l’allarme sulle morti solitarie.
Alcuni lotti sulla stessa fila della tomba di famiglia della signora Ito mostrano segni di abbandono, dalle fessure spuntano erbacce che minacciano di invadere le lapidi. Ci sono intere zone nascoste sotto piante non potate e piccoli alberi, che coprono i nomi dei defunti. Sembrano i vecchi villaggi nelle campagne giapponesi, che la natura si è ripresa dopo la morte degli ultimi abitanti.
Chizuko, la figlia della signora Ito, è morta a 29 anni dopo una lunga malattia. Se sua figlia fosse viva, non sarebbe costretta a chiedere alla vicina di controllare la sua finestra e a mandarle delle pere tutte le estati. “Se la mia bambina fosse qui non avrei niente di cui preoccuparmi”, dice.
Segnali di vita
Per i referenti di quartiere, i miasmi provenienti dalle case di inquilini come il signor Kinoshita – sudore, urina, cibo stantio e spazzatura – sono l’odore rassicurante della vita. Quando dalla buca delle lettere di un appartamento si sente quell’odore, significa che dentro non c’è un morto. Più precisamente, è l’odore di qualcuno che si aggrappa alla vita, un odore che il signor Kinoshita si porta dietro tutte le volte che esce di casa.
Da quando le sue gambe si sono indebolite, però, il mondo di Kinoshita si è ristretto alle pareti del suo appartamento. E poi, con l’aumentare dell’immondizia, il suo appartamento si è ristretto al suo letto, dove nei giorni di mezza estate se ne sta seduto o sdraiato con addosso solo un fundoshi, il perizoma tradizionale. Ha rinunciato a fare pulizia.
Quest’anno è venuto un assistente sociale che si è portato via un tavolo da disegno usato per progettare le attrezzature per l’Eurotunnel. Ma l’immondizia continua ad accumularsi. Quest’estate ha trovato dei vermi dentro un piatto pieno di avanzi di curry.
Il canto delle cicale rimbomba tra le mura dell’appartamento. Il frastuono che tanto infastidisce la signora Ito appaga il senso dell’effimero del signor Kinoshita. “Gridano disperatamente finché sono in vita”, dice. Le sue preferite sono le tsuku-tsuku boshi, che arrivano alla fine dell’estate preannunciando il cambio di stagione. Sbarra gli occhi dall’emozione quando le sente per la prima volta dalla finestra.
È ancora un uomo dai molti appetiti, che siano i pranzi che si lascia offrire dalla signora Ito o i ricordi dell’intimità. “When I was young…”, dice.
Una sera, mentre se ne sta seduto sul letto, si mette la dentiera e s’infila i pantaloncini e la camicia che indossa sempre quando esce di casa. Sta andando a vedere un concerto che si tiene ogni mese in un negozio di riparazioni di computer. Ci va sempre. È l’unico appuntamento che ha segnato sul calendario questo mese.
Al negozio una cantante comincia a intonare degli standard jazz. Tra una canzone e l’altra, il signor Kinoshita sottolinea con piccoli grugniti di approvazione i commenti civettuoli della cantante. Quando la musica ricomincia, tiene il tempo tamburellando con le dita. Durante una pausa alcuni clienti abituali chiacchierano al buffet. Kinoshita se ne sta tranquillo in un angolo, mangiando voracemente e bevendo direttamente dalla migliore bottiglia di whisky. “Nonno, hai gusti costosi, eh?”, dice la donna a voce abbastanza alta perché sentano tutti.
Alcuni presenti dicono di non aver mai visto il signor Kinoshita, anche se è un habitué. Mi torna in mente una cosa che mi ha detto un rappresentante di quartiere sugli uomini a rischio di morte solitaria. Questi uomini, tagliati fuori da ogni contatto umano, diventano come fantasmi, nullità (in giapponese le due parole si pronunciano uguali). Forse gli altri clienti abituali, anziani a loro volta, davvero non hanno mai notato il signor Kinoshita. Fa eccezione un uomo che indossa una maglietta blu con scritto “The Coach”. Si ferma a parlare un po’ con lui, che gli racconta dell’Eurotunnel.
Durante l’ultima canzone il signor Kinoshita è con la faccia al muro. Si è girato sulla sedia per immergersi nella dolcezza della musica.
“Monsieur”, dice l’uomo con la maglietta blu battendogli delicatamente sulla spalla. “Il brano è finito”.
Nostalgia dell’età dell’oro
Nei libri e nei ricordi della signora Ito, Tokiwadaira, come gli altri danchi che invecchiano in tutto il Giappone, ultimamente è diventato oggetto di un rinnovato interesse nostalgico. Sono usciti film, libri e blog che celebrano e dissezionano nei minimi dettagli vari aspetti della vita in questi complessi.
Alla base di questo fenomeno c’è il rimpianto per un’età dell’oro del Giappone postbellico, in cui c’era una visione unitaria del futuro. Ma il mondo descritto dai nostalgici non potrebbe essere più lontano dalla realtà di luoghi come Tokiwadaira, dove è avvenuta una frattura evidente tra presente e passato.
Con il trascorrere delle settimane, i rappresentanti di quartiere sperano che quest’estate si conteranno meno morti solitarie. Si sono fatti avanti i parenti di uno dei due uomini morti, che hanno chiamato dei professionisti per ripulire l’appartamento. Anche se sono passate settimane, la porta dell’appartamento del 67enne morto nell’ala della signora Ito è ancora sigillata con il nastro e l’odore continua a sentirsi per le scale.
Una pioggia di cicale si riversa su Tokiwadaira. Gli involucri e i cadaveri sono sparsi dappertutto. La signora Ito li ha trovati pure sulle scale di fronte al suo appartamento. Ce n’è uno anche davanti alla porta di Kinoshita.
Con l’approssimarsi dell’Obon i supermercati cominciano a vendere i kit per la festa, composti da sottili bastoncini di legno, un cavallino e una mucca. Una volta accesi, i bastoncini aiutano gli antenati a tornare sulla Terra su un cavallo al galoppo. Dopo tre giorni, i vivi rimandano gli antenati nell’aldilà, lentamente, in groppa a una mucca. È il giorno dell’anno in cui i vivi e i morti si rincontrano.
La signora Ito ha smesso di celebrare l’Obon ormai da tanti anni. Nel danchi è vietato accendere l’incenso davanti alla porta di casa, come faceva a Tokyo. In compenso le pere che ha ordinato sono state consegnate e arrivano varie telefonate di ringraziamento, una mentre lei è al cimitero.
“Pronto? Chi è scusi? Eriko?”, dice Ito rispondendo al cellulare davanti alla lapide del marito. Lei e la figliastra si sentono di rado. Ito le ha mandato delle pere. Eriko le ha mandato dei garofani per la festa della mamma. La telefonata dura un paio di minuti. “Stammi bene. Tra poco avrai sessant’anni. Lo so, ho perfino dei bisnipoti. Sono sempre tutti impegnati, è per quello, credo, che non ci sentiamo mai. Grazie per i garofani. D’accordo, stammi bene”.
L’occhio della vicina
Pochi passi separano la casa della signora Ito dall’appartamento al piano terra della sua vicina, Toyoko Sakai, la donna di 83 anni incaricata di tenere d’occhio la sua finestra. Ito brucia un bastoncino d’incenso e congiunge le mani davanti all’altare buddista della donna. Un ritratto del defunto marito della signora Sakai spicca su una cornice tra due bouquet di fiori. Sotto il ritratto ci sono un melone e una grossa pera rotonda, una di quelle che le ha mandato Ito.
La signora Sakai, che è dura d’orecchi ma ci vede bene, ha la visuale libera sulla finestra della signora Ito al terzo piano, quindi è naturale che la scelta ricadesse su di lei. Negli ultimi tempi, però, l’attenzione della signora Sakai è stata attirata da un altro edificio, dove la spazzatura si sta accumulando sul balcone di un appartamento al quarto piano. “Al quarto piano”, dice concitata. “Da qui si vede bene”.
Nascondendo l’ansia, la signora Ito riporta l’attenzione della vicina sul suo appartamento, assicurandosi che non si faccia distrarre e che tenga sempre d’occhio la sua finestra al terzo piano.
“Sì, sì”, dice la signora Sakai, guardando dalla finestra verso l’appartamento della signora Ito. “Lì, al quarto piano”.
“Il terzo piano”, ripete ancora una volta Ito, correggendo gentilmente la vicina. “Sono al terzo piano”.
La signora Sakai, che non ha sentito, insiste a descrivere la finestra al quarto piano.
“Sono al terzo”, ripete la signora Ito a voce più alta.
“Il terzo piano!”, dice la signora Sakai, che finalmente ha capito.
“Il terzo piano, quello con la rete nera”, dice la signora Ito. Le due donne ridono al pensiero che la signora Sakai abbia controllato fin dall’inizio la finestra sbagliata.
Come ogni anno, l’Obon passa senza che nessuno dei parenti del signor Kinoshita si faccia vivo. Lui è rimasto quasi tutto il tempo rintanato in casa a leggere un libro che tiene vicino al cuscino, L’H degli uomini l’H delle donne: H (ecchi) è un modo colloquiale per dire sesso.
Essendo il maschio più anziano, Kinoshita dovrebbe occuparsi della tomba di famiglia, ma ci ha rinunciato. Non ha nessuna intenzione di finire lì, dice, perché ha causato già troppi problemi ai fratelli con la sua bancarotta.
Ha un figlio da un primo matrimonio che finì quando il bambino aveva da poco imparato a camminare. “Forse l’ho trascurato”, riflette. Si scambiano solo gli auguri a capodanno. Anni fa, ricorda sorridendo Kinoshita, suo figlio gli ha scritto che gli piace fare il padre.
“Anche se incidono il mio nome su una lapide nessuno verrà a visitare la mia tomba”, dice. Si è registrato presso una scuola di medicina per donare gli organi dopo la morte. La scuola si occuperà di tutto: ogni anno, in autunno, organizzerà una commemorazione in un tempio buddista in onore suo e di tutti gli altri donatori; farà pulire il suo appartamento. La sua maglietta, come forse anche i libri della signora Ito, saranno bruciati in un inceneritore.
Lo preoccupa solo il pensiero di morire da solo. I suoi organi dovranno essere utilizzabili. “Ma se gli dici di venirsi a prendere un corpo in decomposizione per fare ricerca non vengono”, dice.
I messaggeri dell’autunno
Com’è tradizione da tanti anni, a Tokiwadaira la danza dell’Obon si svolge l’ultimo fine settimana di agosto. Le sere di fine estate ora sono notevolmente più fresche.
La signora Ito sembra preoccupata. La confusione della vicina sulle finestre l’ha turbata. È chiaro che la donna non è affidabile, dice. Passa un giorno e ci ripensa. Nel corso degli anni la sua vicina è venuta a trovarla a casa quindi sa sicuramente dove abita. È stato solo un momento di confusione.
Pochi giorni prima della danza, Ito ha ricevuto una telefonata dal signor Kinoshita. Non vedeva l’ora di andare alla festa e le chiedeva conferma della data. Lei aveva smesso di andarci tanti anni fa, quando le figlie erano cresciute. Al tempo il danchi era pieno di bambini e la danza si teneva in un grande parco. “In confronto adesso non è niente”, gli ha detto.
La gente comincia ad arrivare dopo il tramonto. Tutti ballano in cerchi intorno a un palco in mezzo alla piazza illuminato da lanterne rosse e bianche. Kinoshita spinge il deambulatore tra la folla, riposandosi su una panchina. Distoglie lo sguardo dalle donne che danzano sul palco. Quando gli presentano qualcuno dice solo: “L’unica cosa che mi è rimasta è l’Eurotunnel”.
Si sta facendo buio. I grilli cantano, preannunciando l’arrivo dell’autunno. La porta di casa del 67enne defunto è ancora chiusa con il nastro, ma l’odore non vuole saperne di andar via. Più all’interno, dopo la piscina deserta e il parco giochi abbandonato, s’intravede nella notte la finestra della signora Ito.
Il pannello di carta è chiuso, in attesa che lo riapra al mattino.
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