Montagna e Giappone. Queste sono le due passioni che mi accompagnano da anni, in quest’ordine oppure invertite, con alti e bassi, in modo esclusivo o in concomitanza, con la capacità di cannibalizzare ogni altra cosa che sto facendo salvo poi ravvedermi e relegarle in un angolo quasi fossero per un po’ in castigo. Eppure nel tempo non le avevo quasi mai pensate a stretto contatto fra loro, sovrapposte, complementari, benché a pensarci bene il Giappone è un’isola che per la maggior parte del suo territorio è di tipo montuoso.
Ma come diceva Romano Battaglia, «le coincidenze a volte sono i segnali misteriosi della vita ai quali bisogna credere», di recente mi sono imbattuto in un bell’articolo scritto da Silvio Lacasella su L’Altra Montagna, un blog che raccoglie rubriche, storie, curiosità dalle menti di montagna, che prende spunto dalle opere dell’artista giapponese Utagawa Hiroshige, che sanno offrire atmosfere lontane nello spazio, ma soprattutto nel tempo, per parlare di un elemento che sta a cuore a chiunque frequenti le Terre Alte: la neve.
Di seguito lascio il testo dell’articolo, un po’ come promemoria personale, un po’ perché è anche un ottimo spunto per parlare di un argomento all’attenzione di molto, che ha delle conseguenze non trascurabili in primis per chi fa della montagna la propria casa, ma anche per chi la frequenta in modo più o meno assiduamente. Il quesito che ci pone è tanto semplice quanto spiazzante: «e se la neve non cadesse più?». Sappiamo tutti infatti che la carenza di neve significa poi carenza di acqua e, benché le conseguenze siano davanti agli occhi di tutti, a mio avviso abbiamo sì intravvisto la strada da percorrere, ma non ci abbiamo ancora messo gli scarponi sopra.
Bando alle ciance, dopo la foto vi lascio alle bellissime immagini che evoca questo articolo, che permette anche a noi di fluttuare nel vivace e caotico mondo delle grandi città di Tōkyō, Ōsaka e Kyōto del Periodo Edo.
Quando si osserva con curiosità e attenzione il presente, può capitare che alcuni dettagli del passato si ripresentino improvvisi, andando a incunearsi in ciò che deve ancora arrivare: un oggetto, un biglietto, una moneta in metallo di un paese mai più visitato, un libro comprato chissà quando e dove, e molto altro ancora.
Uno di questi ritrovamenti, ad esempio, è un articolo di Laura Torretta, pubblicato nel supplemento domenicale del Sole24Ore, il 5 maggio 1991: “Il vivere fiorito del Sole fluttuante”. Quasi mi aspettasse, il ritaglio è uscito sfogliando le pagine di un catalogo dedicato a Hiroshige. La memoria non restituisce tutto. Non mi dice come mai io l’abbia inserito in un volume edito da Skira del 2009, in occasione di una mostra organizzata a Roma e dedicata al grande artista giapponese. Diciotto anni dopo, dunque. Dov’era rimasto prima di finirci dentro e come mai lo avevo conservato se non recensiva una grande mostra, ma una collettiva in una galleria milanese in via Monte Napoleone?
Non conoscendone il motivo, mi piace ora interpretarlo. La prima parte di questo articolo, infatti, contiene un prezioso indizio, un vero e proprio suggerimento per affrontare un tema a me molto caro: l’arte e la cultura orientale. Più che subirne il fascino, ho sempre cercato di farlo mio, con la consapevolezza di poter cogliere e assorbire solo ciò che riesco a tradurre e percepire. Aiutano le letture, aiutano i suoni, moltissimo le immagini, ma in quella cultura non si entra se anche il corpo, sin dai suoi primi anni, non ne vive cadenze.
Raccontava, quell’articolo del 1991, di una recente asta da Sotheby’s a Tōkyō, organizzata per vendere l’intera collezione di stampe giapponesi, raccolte con competenza e passione da Walter Amstutz, allora quasi novantenne, essendo nato nel 1902 (morirà sei anni dopo). Di questa notizia mi colpì di sicuro la decisione, presa dallo stesso Amstutz, di disperdere di una così preziosa raccolta. Oltretutto, rimase molto soddisfatto per come andarono le cose. Sia per la presenza in sala di oltre quattrocento persone, arrivate per contendersi fogli ritenuti capolavori della xilografia giapponese, e sia per i 5 miliardi di lire che gli entrarono nel portafoglio (due milioni e mezzo di euro).
Oggi, però, a colpirmi è una particolare coincidenza: in quel catalogo cercavo le incantevoli immagini che Utagawa Hiroshige (1797-1858) aveva a più riprese dedicato alla neve, con una maestria da molti ritenuta insuperabile o rivaleggiante col solo Hokusai. Tavole inserite dall’artista all’interno dei suoi racconti per immagini, come quello, ricercatissimo oggi, ma già molto amato dai contemporanei, dedicato alle “Cinquantatré stazioni del Tōkaidō”, la principale arteria del paese che univa Edo (l’attuale Tōkyō) a Kyōto, la città imperiale. Ebbene, cercando la neve, scopro tra le righe che Walter Amstuz, svizzero del cantone di Berna, successivamente trasferitosi in Gran Bretagna, oltre a essere raffinato editore di grafica, fu nel suo paese un pioniere dello sci e dell’alpinismo e fondatore, nel 1924, dello Sci Club accademico svizzero. Ecco allora che, anche senza il minimo indizio, interpreto diversamente quella decisione: la vedo come una sorta di rito sacrale di fine vita. Un completamento, in attesa che, della neve, rimanga il suo silenzio.
Con la mente non cerco altro, con gli occhi una sola sua immagine, quella a me più cara. Prima di trovarla, però, incontro una sua “onda”, impennata in primo piano e fiorita nella sua schiumosa cima ricurva: “Il mare di Satta nella provincia di Suruga”, xilografia policroma inserita nelle trentasei vedute del monte Fuji”. Osservandola subito, penso a Hokusai, di trent’anni più vecchio, ma col quale egli sembra in più occasioni voler rivaleggiare.
Qualche pagina ancora e appare un altro suo capolavoro: “Pioggia improvvisa sul grande ponte di Atake”, a cui Van Gogh dedicherà una copia. Qui sarebbe necessario aprire il capitolo Impressionisti: Manet, Monet, Degas, Toulouse Lautrec, Gauguin, Van Gogh e molti altri in Francia ammireranno e collezioneranno questi fogli, arrivati inizialmente al porto di Amsterdam per incartare le spezie o le porcellane. Descrivono il mondo fluttuante dell’Oriente, denominato Ukiyo-e, ma anche un diverso modo di intendere lo spazio visivo, suddividendolo in eleganti placche cromatiche, capaci restituire fedelmente la fuggevolezza di sentimenti tra loro assai contrastanti. Un ritmo, una cadenza: l’incanto di ciò che presto svanirà attrae questi artisti più di ogni altra cosa e questo crea una vicinanza estrema con gli impressionisti, anch’essi impegnati a catturare una luce transitante e inafferrabile. Ma anche quel loro modo di suddividere i piani e di collocare le figure sarà un’indicazione preziosa per molti.
Facile tornare a Van Gogh osservando il “Giardino dei susini di Kameido”, nonostante quei rami, passando per Vienna, portino all’astrazione. Un “Uccello del paradiso” ed uno giallo, appoggiato su un glicine in fiore, tratteggiati con pochi tratti, miracolosamente precisi, rievocano i maestri calligrafi. Ma eccola, finalmente, la mia amata xilografia: “Neve di sera a Kambara”. Mentre la guardo cerco un haiku e ne trovo uno di toccante malinconia, perfetto per questa immagine:
I campi e i montisono scomparsi sotto il manto nevoso.È il nullaNaitō Jōsō (内藤 丈草)
Hiroshige ambienta la scena nell’ora che, nell’abbandonare il giorno, precede la notte. Il cielo grigio permette di vedere che la nevicata continua: sono i medesimi grigi che ammorbidiscono la soffice coltre che ricopre i monti, le piante, i tetti delle case, introducendo l’osservatore in quello stesso silenzio. La fragilità la si coglie nelle tre figure poste al centro: nonostante il giallo, il rosso e il blu delle loro vesti siano gli unici tre punti di colore. Esse avanzano molto lentamente, tanto è vero che solo delle orme più vicine rimane ancora visibile l’impronta.
Grazie a queste immagini, giungono distintamente dall’esterno e da un mondo lontano una serie di emozioni che riusciamo a fare nostre. Questo accade perché, senza saperle tradurre compiutamente, già le avevamo dentro:
Solo perché esistoson quitra la neve che cade.Kobaishi Issa (小林 一茶)
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