In questi giorni, mentre facevo un po’ di ordine negli appunti, sono ritornato su un articolo pubblicato su Internazionale ancora a dicembre 2019, a traduzione di Bruna Tortorella, scritto nella sua versione originale da Oliver Burkeman per il quotidiano britannico The Guardian con titolo You can’t fix everything, so start by accepting life’s niggles.
“Stile di vita zen”, “giardino zen”, “filosofia zen”, “meditazione zen”, “proverbio zen”, “atteggiamento zen”: al giorno d’oggi questo termine è riscontrabile in circostanze molto diverse tra loro, con accezioni non sempre del tutto chiare e quest’etichetta viene applicata quasi indistintamente ad ogni ambito della vita e del sapere. Ma cosa vuol dire con esattezza zen?
Non tutti però sanno che la parola zen è conosciuta in Occidente con la pronuncia giapponese, ma la versione originale, cinese, è 禅 (chán), corrispettivo del termine sanscrito dhyāna traducibile come “visione”, e in seconda battuta come “meditazione” intesa come “stato di perfetta equanimità e consapevolezza”. La pratica di dhyāna era largamente utilizzata nel Buddismo, nell’Induismo e nel Jainismo per raggiungere l’illuminazione, che a seconda della religione era vista come perfetta purezza mentale, ricongiungimento con dio oppure apertura del terzo occhio.
Anche così però lo zen è di difficile spiegazione e comprensione, poiché non si tratta né di una filosofia o di una religione, né di una scienza caratterizzata da regole e precetti che mirano ad un obiettivo razionale e definito. In realtà è più uno stato mentale in divenire, legato all’individualità di ciascuno. Il suo scopo, semplificando, è quindi quello di fornirci una via che ci riporti al nostro “vero io”, al presente, al “qui e ora”, distaccandoci dalle distrazioni inutili e dagli atteggiamenti mentali che ci isolano dalla realtà.
Tutto bello. Però, arrivati a questo punto, potremmo chiederci perché sia così importante fare tesoro dell’attimo presente, per quale motivo il futuro, il passato e tutti i pensieri che ci isolano dalla realtà vadano eliminati dalla nostra mente. Ebbene, secondo lo zen, eliminando le nostre sovrastrutture mentali e superando l’attaccamento al mondo materiale è possibile arrivare alla Verità Assoluta e viverla nella sua pienezza. Una risposta tanto affascinante quanto enigmatica, anche perché presuppone un’esperienza soggettiva e unica per ogni persona.
Senza dilungarmi oltre, avendo solo l’ardire di dare una breve infarinatura sul tema, mi ricollego velocemente all’articolo citato all’inizio in quanto fornisce, forse, un esempio pratico di quale sia un risvolto dello zen nella vita di tutti giorni, facendo quindi sembrare questa tematica un po’ più concreta e meno astratta di quanto possa apparire. Non mi resta che lasciare qui di seguito l’articolo e, per i commenti, ci sentiamo a fine pagina.
A Natale e nella vita è più saggio avere un atteggiamento zen
La maestra zen Charlotte Joko Beck una volta ha detto: “Quello che rende un dolore insopportabile è la convinzione sbagliata di poterlo eliminare”. Penso spesso a questa frase. Una delle sue implicazioni è che i problemi della vita non sono solo la conseguenza di come sono le cose, ma di come pensiamo che dovrebbero essere. Se non le volessimo diverse, non avremmo problemi.
Questo è probabilmente più evidente nel caso del perfezionismo ossessivo: se siete persone che considerano il Natale accettabile solo se tutto procede esattamente secondo i piani – nessun litigio in famiglia, i bambini eccitati per i regali, le patate arrosto croccanti al punto giusto – sicuramente resterete delusi. E la vera causa della vostra delusione non sarà come sono andate le cose nella realtà, ma la perfezione impossibile che vi aspettavate. Dopotutto, non c’è niente di intrinsecamente sbagliato nelle patate arrosto mollicce. L’errore ce lo aggiungete voi, come il sugo dell’arrosto.
La grande intuizione dello zen, e di diverse altre tradizioni culturali, è che la causa di ogni tipo di sofferenza potrebbe essere proprio questa, la continua pretesa che la realtà sia diversa da come è. Almeno in linea di principio, ci sono sempre due modi di affrontare un problema: si possono cambiare le cose, o cambiare il nostro desiderio di volerle diverse. E, a voler essere realistici, spesso non possiamo cambiare le cose. Perciò l’inizio della libertà psicologica, per citare lo scrittore zen John Tarrant, consiste nel chiedersi: “Aspetta un momento, e se le cose stessero così e basta?”.
Tutta la vita
Il modo più facile di interpretare questa intuizione è che forse è possibile risolvere qualsiasi problema – un profondo dolore, la più estrema povertà – decidendo semplicemente di non preoccuparsene. Il modo meno facile di interpretarla è ricordare che, davanti a qualsiasi problema, di qualsiasi gravità, è sempre utile chiederci se, in modo inconscio, non stiamo opponendo resistenza alla realtà delle cose, o pensando che la nostra felicità dipenderà dal fatto che in futuro saranno molto diverse.
In uno dei libri che sono stato più grato di scoprire quest’anno, Already free, lo psicoterapeuta Bruce Tift ci consiglia di chiederci come sarebbe continuare a vivere tutta la vita con i nostri grandi problemi. E se rimanessimo sempre single o non trovassimo mai un lavoro gratificante, o non smettessimo mai di trovare irritante una cosa che fa il nostro partner?
Tift dice di non avere mai problemi nel suo matrimonio, ma solo perché non considera più un problema provare tumulti emotivi, cosa che gli capita tutti i giorni.
Perfino le persone che si assumono un ammirevole grado di responsabilità nei confronti dei loro “problemi”, spesso covano la segreta speranza che, con più tempo a disposizione e più impegno, potrebbero liberarsene una volta per tutte. Ma, e se rimanessimo sempre uguali? Quanta parte di qualsiasi problema è il problema? E quanta parte è il semplice fatto che è ancora lì quando, maledizione, alla nostra età dovremmo essercene liberati?
Una volta accettato che i battibecchi in famiglia sono uno degli aspetti tipici del Natale, in fondo scopriamo che possono essere perfino carini (tranne quando non lo sono, e anche questo va bene). La cosa più bella del fatto che la realtà è una condizione incurabile è che non dobbiamo preoccuparci di curarla.
Da ascoltare
In una puntata del podcast Insights at the edge, lo psicoterapeuta Bruce Tift si chiede come vivremmo se la smettessimo di pensare che “una buona vita è una vita senza dolori, ansie e preoccupazioni”.
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