Il Capodanno in Giappone è la festività più sentita e più attesa di tutto l’anno, in cui emergono le più vive usanze tradizionali perché in questo periodo si ringraziavano i kami (神) che proteggevano i raccolti (in particolare Toshigami (年神), letteralmente il “Dio dell’anno”) e si dava il benvenuto agli spiriti degli antenati che proteggevano le famiglie. Per fare questo allora come oggi si decorano con rami di pino e bambù, detti kadomatsu (門松), entrambi i lati dell’ingresso delle case, abbinandoli con decorazioni di fili di paglia, dette shime-kazari (注連飾) e proprio per questo motivo i primi sette giorni del mese di gennaio sono tutt’ora chiamati matsu no uchi (松の内), ovvero “periodo con decorazioni di rami di pino”.
La vigilia di Capodanno, il 31 dicembre, prende il nome di Ōmisoka (大晦日). L’ultimo giorno di ogni mese del calendario lunisolare giapponese era storicamente chiamato misoka (晦日). In origine, miso era scritto come 三十, che indicava il 30° giorno, sebbene misoka a volte cadesse il 29° a causa delle diverse lunghezze del mese lunare. L’ultimo giorno del 12° mese lunare era chiamato ōmisoka (大晦日) – dove 大 indica appunto l’ultimo giorno del mese per quell’anno – traducibile come il “grande trentesimo giorno”. Con la Restaurazione Meiji, nel 1873, il Giappone passò al calendario gregoriano e ōmisoka fu fissato al 31 dicembre, ovvero la vigilia di Capodanno. Il giorno è anche noto con la pronuncia arcaica di ōtsugomori (大晦): questa è una versione abbreviata di tsukigomori (月隠り), che significa “ultimo giorno del mese”.
Tradizionalmente in questo giorno si svolgono alcune attività necessarie a prepararsi al meglio per l’arrivo del nuovo anno. Tra queste si annoverano, il rimborso dei debiti, la purificazione per scacciare gli spiriti maligni e la sfortuna e il bagno in modo che le ultime ore dell’anno possano trascorse rilassandosi. A queste si aggiungono le grandi pulizie della casa, chiamate Ōsōji (大掃除), che prevede di ripulire tutta la casa prima che arrivi il Capodanno (di solito il 28 dicembre), iniziando dall’alto verso il basso e dall’ingresso della stanza in senso orario, coinvolgendo tutti i componenti della famiglia e cercando di riparare anche i problemi più ostinati. Queta tradizione deriva dalle prassi in uso nel periodo Edo (1603–1868) del susu-harai (煤払い, “pulizia della polvere”), che veniva osservata il 13 dicembre per pulire le case e dare il benvenuto agli dèi del nuovo anno.
Di recente, famiglie e amici si riuniscono spesso per fare feste, guardando alla tv pubblica NHK un programma chiamato Kōhaku Uta Gassen (紅白歌合戦, traducibile come “Battaglia di cantato rosso contro bianco”).
A mezzanotte, molti visitano un santuario o un tempio per hatsumōde (初詣), o la prima visita al santuario/tempio dell’anno. In tutto il Giappone, i santuari shintoisti preparano amazake (甘酒) o amasake (un dolcificante conosciuto da molto tempo in oriente e prodotto dalla fermentazione enzimatica del riso) da distribuire alla folla che si raduna all’avvicinarsi della mezzanotte. La maggior parte dei templi buddisti, invece, ha un grande bonshō (梵鐘, campana buddista), noto anche come tsurigane (釣り鐘, campana appesa) o ōgane (大鐘, grande campana), che viene suonato una volta per ciascuna delle 108 tentazioni terrene che si ritiene causino sofferenza umana. La tradizione del suono delle campane è conosciuta come Joya no Kane (除夜の鐘 o じょやの鐘, letteralmente “campana di mezzanotte”) e i giapponesi credono che il suono delle campane possa perdonare i peccati compiuti nel corso dell’anno precedente. Infine, dopo aver finito di suonare le campane, si festeggia con un banchetto a base di toshikoshi-soba (年越しそば), una particolare preparazione dei soba (蕎麦) giapponese. Le parole toshi (年) e koshi (越し) significano rispettivamente “anno” e “venire” ed i soba (そば) hanno la caratteristica di essere molto più lunghi nel normale, a simboleggiare una vita lunga. I soba sono una pasta di grano saraceno simile ai tagliolini o agli spaghetti, la cui pianta è molto resistente alle intemperie, per cui i soba rappresentano anche la forza e la resistenza che si metterà nell’affrontare al meglio il nuovo anno.
È poi bene sapere che con la parola Ganjitsu (元日) ci si riferisce unicamente al 1° gennaio (festa nazionale), mentre con la parola Shōgatsu (正月), anche detto Oshōgatsu (お正月), si fa riferimento ai primi tre giorni dell’anno (in alcune zone anche 7, in altre addirittura 15) che la maggior parte dei giapponesi trascorre in famiglia. Celebrare l’inizio del nuovo anno in Giappone significa anche prestare particolare attenzione alle azioni che si svolgono per la prima volta nelle prime ore dell’anno nuovo. È quindi tradizione compiere una serie di rituali di buon auspicio.
Il rituale dell’Hatsuhinode (初日の出) nasce durante il periodo Heian (794-1185) in seno alla corte imperiale, e si estende a tutta la popolazione nel periodo Meiji (1868-1912). L’hatsuhinode, letteralmente “il primo levarsi del sole”, si riferisce all’usanza giapponese di osservare la prima alba dell’anno: molti giapponesi si radunano in luoghi dell’arcipelago da cui è ben visibile l’orizzonte a est e ai primi raggi del sole che emergono esprimono desideri di felicità per l’anno che sta per iniziare. Il sole riveste infatti un importante ruolo nella mitologia giapponese: secondo il Kojiki (古事記, “vecchie cose scritte”), ovvero il mito fondatore del Giappone, la dea del sole Amaterasu-ō-mi-kami (天照大御神, letteralmente la “Grande dea che splende nei cieli”), generalmente abbreviato in Amaterasu, è infatti la divinità tutelare del Giappone da cui gli imperatori traevano la loro essenza divina.
In genere, indossando il kimono durante la visita al santuario vengono espressi desideri per il nuovo anno, vengono acquistati nuovi omamori (お守り, ovvero amuleti o ciondoli di protezione) e quelli vecchi vengono riportati in modo che possano essere bruciati. Per quanto riguarda i santuari scintoisti, in passato, si effettuavano le visite alle strutture che erano in una “direzione propizia” rispetto alla casa del visitatore, allo scopo di pregare per un ricco raccolto e per la sicurezza della famiglia e della casa per l’anno nuovo.
Un particolare tipo di hatsumōde è il ninen mairi (二年参り), ovvero la “visita dei due anni”. Quando, a tarda notte di Capodanno, le persone visitano un santuario verso mezzanotte, la visita sostanzialmente si estende sia all’anno vecchio che a quello nuovo, e quindi viene chiamata “visita dei due anni”. Proprio grazie alla pratica del ninen mairi, esiste l’usanza di far funzionare i trasporti pubblici la notte di Capodanno per tutta la notte senza soste.
Oggigiorno i luoghi di culto più frequentati per lo hatsumōde, sia dai giapponesi ma anche dai turisti, sono il santuario di Meiji Jingū (明治神宮) a Tokyo, il Tempio Kawasaki Daishi (川崎大師) nella prefettura di Kanagawa e il Tempio Narita-san Shinshōji (成田山新勝寺) nella prefettura di Chiba.
Altre “prime volte” considerate propizie per iniziare bene il nuovo anno sono hatsuwarai (初笑い, la prima risata, perché iniziare l’anno con un sorriso è simbolo di buon auspicio), hatsuyume (初夢, il primo sogno, dove quanto sognato predirebbe eventi prosperi per l’anno a venire), hatsudayori (初便り, il primo scambio di lettere), shigoto-hajime (仕事始め, il giorno in cui riaprono gli uffici e ci si ritrova per un nuovo anno lavorativo), hatsugama (初釜 o はつがま, la prima cerimonia del tè dell’anno) e hatsuuri (初売り, le prime compere dell’anno, in cui le persone si dirigono nei negozi per approfittare degli sconti e delle vendite speciali di Capodanno e accaparrarsi i fukubukuro (福袋, che letteralmente significa “borsa/sacchetto della fortuna”), ovvero una “borsa a sorpresa” che contiene vari tipi di prodotti.
Per tutti i giapponesi il Nengajō (年賀状), la cartolina tradizionale di Capodanno, è un passo importante che chiude l’anno e introdurre il nuovo. Non è solo un fare gli auguri agli amici, ai colleghi, alla famiglia, ma un momento di riflessione, di crescita. Da un lato gli indirizzi di mittente e destinatario generalmente scritto a mano (una buona occasione per mostrare le proprie abilità nell’arte di scrittura, la cosiddetta shodō 書道, la “via della scrittura”), dall’altro un’illustrazione a tema del segno zodiacale annuale, accostata a frasi di buon augurio. Se ne vendono molte già stampate, ma molti giapponesi amano crearsele, disegnandole e scrivendole per l’appunto a mano.
È consuetudine e educazione non inviare queste cartoline a chi ha avuto un lutto in famiglia durante l’anno. In questo caso, un membro della famiglia invia una semplice cartolina chiamata mochū hagaki (丧 中叶 书, cartolina da lutto) per informare amici e parenti di non inviare biglietti d’auguri per il nuovo anno, in segno di rispetto per i defunti.
Nonostante la popolarità delle e-mail e la diffusione di tecnologie che permettono l’invio di cartoline digitali, il nengajō rimane una tradizione affascinante che resiste (ancora) alla modernità. Tuttavia, le nuove generazioni preferiscono scambiarsi saluti digitali tramite cellulare e negli ultimi anni la società ha gradualmente iniziato ad accettare questi saluti digitali. Un vero peccato perché, a ben pensarci, fa sempre piacere ricevere una cartolina o una lettera cartacea piuttosto che una banale messaggio.
L’Otoshidama (お年玉) è una l’occasioni per cui i genitori e parenti, o stretti amici di famiglia, danno la “paghetta” ai bambini e nipoti nei primi tre giorni dell’anno. Un’usanza particolare, che spesso si vede nei film, ma soprattutto in anime e manga dove i bambini attendono con ansia per poterli spendere subito.
Come spesso accadde per le tradizioni giapponesi è difficile risalire all’origine di quest’occasione: alcuni pensano che possa discendere dal periodo Edo (1603-1868) quando il “regalo” non riguardava solo i soldi, ma anche merci e/o prodotti. Poi, tra il periodo Meiji e l’epoca Shōwa (quindi per un arco temporale che va dal 1868 fino al 1989) si ebbe una forte espansione dell’economia giapponese, che portò anche a una trasformazione della tradizione, privilegiando solo il denaro a discapito delle cose.
Le banconote vengono piegate in tre sezioni, inserite in piccole buste decorate chiamate pochi-bukuro (ポチ袋) o otoshidama-bukuro (お年玉袋), simili al shūgi-bukuro (祝儀袋, ovvero una particolare busta usata per donare denaro agli sposi in Giappone), e consegnate ai figli di amici e parenti. Esistono varie teorie sull’origine del termine pochi-bukuro e una delle più diffuse rimanda al periodo Meiji (1868-1912) dove si diffuse l’usanza di utilizzare una bustina per dare le mance o le gratifiche alle Geisha (芸者) della zona del Kansai: il termine pochi (ポチ), infatti, significa “pochi” e prende origine dalla parola koreppochi (これっぽち) che a sua volta significa “poco” in dialetto del Kansai.
I bambini di solito ricevono le buste fino a quando non finiscono la scuola superiore, anche se non è raro che pure gli universitari ne usufruiscano. In queste buste non si usa mettere monete ma solo banconote di carta, pertanto, il regalo minimo che si può ricevere corrisponde alla banconota da 1.000 Yen. Solitamente si regalano dai 1.000 ai 10.000 Yen, a seconda dell’età del bambino, delle sue esigenze e della disponibilità economica della famiglia che fa il dono.
Come tutte le tradizioni, anche questa si porta dietro alcune regole o, in alcuni casi, norme di buon senso legate a questo particolare regalo. Ad esempio, i figli non lo devono farlo ai propri genitori poiché, essendo un “dono” per i più giovani, l’inverso non è possibile. Altro esempio è quello di evitare di dare soldi al figlio del proprio superiore o a persona di grado più alto. Il principio originale di questa tradizione era un omaggio ai più giovani intensi, però, anche i più bassi di rango sociale. Infine, non si regalano somme di denaro che contengano cifre segnate da numeri sfortunati, quali 4 e 9, quindi 4.000 e 9.000 Yen. Il motivo è che il numero 4 (四) ha una lettura onyomi di shi, che in giapponese significa morte (死) e una delle pronunce di 9 (九) ku richiama parole come tortura o dolore.
Durante i primi tre giorni di gennaio, chiamati sanganichi (三箇日, tre giorni), è usanza mangiare cibi particolari detti Osechi Ryōri (御節料理 o お節料理), preparati il 30 o il 31 dicembre (a volte anche prima), per essere poi consumati nei giorni a venire. Gli osechi sono facilmente riconoscibili grazie ai jūbako (重箱), contenitori laccati, simili ai piccoli vassoi per il bentō, che vengono spesso impilati prima e dopo l’uso.
Il termine osechi originariamente indicava il sechi (節) o sechibi (節日), ovvero i giorni che segnano il cambiamento delle stagioni. In passato, era tradizione astenersi dal lavoro in questi giorni, ringraziare gli dèi, fare offerte in cibo e poi mangiare quanto preparato assieme ai familiari. Il Capodanno, una delle cinque feste stagionali (节句, sekku) nella Corte imperiale di Kyōto, era considerato il più importante tra i giorni sechi e, nel corso del tempo, i piatti mangiati a Capodanno iniziarono ad essere chiamati per l’appunto osechi ryōri.
In origine l’osechi consisteva solo di nimono (煮物), un piatto a base di verdura, pesce, frutti di mare o tofu, o una combinazione di questi, cotto a fuoco lento nel brodo di shiru e condito con sakè, salsa di soia e una piccola quantità di dolcificante. Nel corso delle generazioni la varietà di cibo aumentò, tanto che oggi il termine osechi può riferirsi a qualsiasi cosa preparata appositamente per il nuovo anno. Inoltre, un tempo era tradizione preparalo in casa, ma ora viene venduto anche già pronto nei negozi specializzati, nei supermercati e addirittura nei konbini (コンビニ).
Ad accompagnare il tutto è consuetudine bere un tipo di sake (酒) chiamato o-toso (お屠蘇), fatto con diversi tipi di erbe medicinali. Questa è una tradizione antichissima, iniziata durante il periodo Heian (793-1185), in cui tutti i componenti della famiglia lo bevevano per non ammalarsi durante il nuovo anno.
Altra tradizione culinaria giapponese è quella di mangiare i Mochi (餅), dolci di riso dalle forme e dai gusti più svariati, preparati con il mochigome (もち米), un riso glutinoso a grani corti, talvolta abbinato ad altri ingredienti come acqua, zucchero e amido di mais, cotto a vapore e pestato fino a ottenere una pasta, che poi viene modellata nella forma desiderata. La cerimonia di preparazione prende il nome di mochitsuki (餅搗き), in cui vengono impiegati un usu (臼, mortaio) e un kine (杵, martello).
La versione più comune preparata per Capodanno è il kagami mochi (镜 饼) che consiste in due strati di mochi, uno piccolo sopra e uno più grande sotto, il tutto decorato con un dardai (arancia amara giapponese) con tanto di fogliolina a completare l’opera. Il dolce viene posizionato sopra un particolare supporto rialzato in legno, detto sanpo (三宝), mentre sotto il dolce viene sempre posto un foglio di carta chiamato shihobeni (四方 红), e rappresenta un augurio per la casa per scongiurare eventuali incendi per gli anni a venire.
Infine, un’altra preparazione caratteristica di questo periodo è lo zōni (雑煮) o ozōni (お雑煮, nella sua forma onorifica), una zuppa di miso con l’aggiunta di mochi (arrostiti o bolliti in precedenza), che si mangia il primo giorno dell’anno. La preparazione della zuppa varia sia in base alle regioni geografiche che alle tradizioni delle singole famiglie, ma le più conosciute sono quelle del Kanto e del Kansai. L’usanza di mangiarla risale alla fine del periodo Muromachi (1336-1573), quando il piatto veniva offerto agli dèi durante una cerimonia a Capodanno.
In alcune regioni d’Italia in questo periodo dell’anno è abitudine giocare alla tombola per vincere i più goliardici premi messi in palio, così pure in Giappone ci sono giochi tipici del periodo di Capodanno chiamati Oshōgatsu asobi (お正月遊び, gioco di Capodanno).
È usanza che tutti i bambini prendano parte a giochi all’aperto, come far volare i takoage (凧揚げ, aquiloni, quali simbolo di buon auspico, felicità, raccolti abbondati e riparo dai malanni), per i ragazzi giocare con le koma-mawashi (独楽回し, trottole) e per le ragazze sfidarsi a hanetsuki (羽根突き o 羽子突き). Quest’ultimo è un gioco simile al badminton ma senza rete, giocato con una racchetta rettangolare di legno decorata con disegni, chiamata hagoita (羽子板) e un volano dai colori vivaci, chiamato hane (letteralmente piuma). Il gioco è anche noto come oibane (追い羽根, 追羽根 o 追羽子) e alle sue origini si utilizzavano le noci di saponaria come volani.
Tra i passatempi al chiuso, invece, si gioca al sugoroku (雙六 o 双六, letteralmente “doppio sei”), simile al backgammon, ma che nella versione moderna assomiglia più al nostro gioco dell’oca. Un altro gioco per bambini molto famoso è il fukuwarai (福笑い), dove, con una benda sugli occhi, i giocatori devono provare a ricomporre il disegno stilizzato di un viso con dei ritagli di occhi, sopracciglia, naso e bocca. È solo questione di fortuna posizionare le parti del volto in modo corretto, mentre sbagliare è spesso fonte di ilarità e, forse, questo serve anche a spiegare il nome che la tradizione dà a questo questo gioco, “risata fortunata”. Si pensa che il gioco risalga al tardo periodo Edo (1603-1868) dove veniva impiegato un volto che ricorda le maschere in carta pesta raffigurante il viso di Otafuku (阿多福), nota anche come Okame (阿亀), un personaggio associato a Hyottoko (火男), di solito ritratta come una donna brutta e paffuta, ma di buon carattere e divertente.
Infine, il gioco più affine a quelli che conosciamo anche noi italiani in stile “afferra la carta”, si chiama karuta (かるた), il cui nome deriva appunto dalla parola portoghese “carta”, che mette alla prova la velocità dei partecipanti nell’indovinare le poesie o un proverbio ben noti. Fra gli uta-karuta (歌ガルタ, letteralmente “carte delle poesie”), quello più noto si basa sulla raccolta Hyakunin Isshu (百人一首, letteralmente “cento uomini, una poesia per ciascuno”), un tipo di raccolta di waka formato da cento poesie scritte da cento poeti diversi. La più famosa di queste raccolte è lo Ogura Hyakunin Isshu (小倉百人一首), redatta da Fujiwara no Teika (藤原定家) nel periodo Kamakura (1185-1333), così chiamata dal nome del distretto di Ogura, nella città di Kyōto, in cui il poeta viveva all’epoca della sua stesura. Poiché è di gran lunga la raccolta più conosciuta di questo tipo, si è soliti riferirsi ad essa omettendo “Ogura” e chiamandola semplicemente “Hyakunin Isshu”. Esistono poi mazzi dedicati ai più piccoli che, oltre all’aspetto ludico, hanno lo scopo di insegnare, divertendosi, a leggere e scrivere le sillabe giapponesi.
Per concludere, ma non per questo con minor importanza, è bene sapere che quando si vede qualcuno per l’ultima volta prima del nuovo anno, è usanza dire Yoi otoshi wo omukae kudasai (よいお年をお迎えください, traducibile come “le auguro di trascorrere un felice anno”) o nella su forma più informale Yoi otoshi wo (良いお年を).
Il tradizionale primo saluto del nuovo anno, invece, è Akemashite omedetō gozaimasu (あけましておめでとうございます), letteralmente “congratulazioni per il nuovo anno”) o nella sua forma più colloquiale Akemashite omedetō (あけましておめでとう).
Bene! Eccomi a chiudere questo lungo racconto, che si rivela anche per me un buon promemoria delle usanze che accompagnano i giorni dello shōgatsu.
A ben pensarci, però, il “nuovo anno” non esiste proprio poiché la fine di un anno e l’inizio di uno nuovo sono solo una mera convenzione. Niente veramente cambia da un giorno all’altro, siamo sempre noi stessi. Tuttavia, c’è qualcosa di unico e potente nell’idea di iniziare un nuovo anno. Una sensazione di energia rinnovata, di opportunità, di potenziale. È un momento di congiunzione che invita a riflettere sugli ultimi dodici mesi appena conclusi, ad ascoltare i propri pensieri più profondi e a riordinare la propria esistenza. Già, mettere ordine. Proprio come fanno i giapponesi prima della fine dell’anno: ōsōji, grandi pulizie, per prepararsi al meglio al nuovo inizio.
Buttare via, per fare spazio.
Togliere, per ampliare il respiro.
Rinunciare a qualcosa, per avere di più.
Togliere è difficile, si sa, ma è il modo più efficace per cambiare.
Non rimane quindi che fare i migliori auguri per un 2025 consapevole, lento, leggero, ma allo stesso tempo meravigliosamente ricco di cose da ricordare e di ostacoli che avrete saputo superare. Per me e per tutti voi: akemashite omedetō gozaimasu! 😁
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